PSICOLOGIA DELLA RELIGIONE:
la molteplicità delle rappresentazioni oggettuali di Dio
Rivista 3 DIMENSIONI (2013), a. X/n.3, Ed. Ancòra, pp.240-252
http://www.isfo.it/it/Rivista-3D/X-2013.html
Rappresentazioni di Dio, deformazioni e negazioni
Marco Puricelli psicologo psicoterapeuta, Gallarate (VA)
Nessuno ha visto Dio faccia a faccia. Per «vederlo» dobbiamo ricorrere a modalità indirette. Una di queste è la rappresentazione oggettuale di Dio che ciascuno di noi si fa dentro di sé. Si potrebbe dire, senza dubbio, che ciò che non può essere rappresentato non esiste per la psiche. La rappresentazione interiore che noi ci facciamo di Dio non è pertanto equiparabile né ad un’idea di Dio, né a qualche nozione o simbolo.
La psicologia del profondo ad indirizzo psicoanalitico ci dice che tale rappresentazione si forma in noi a partire da circa i primi tre anni di vita sulla base delle immagini dei genitori e di sé, strutturata e «incarnata» mediante un complesso di memorie composite che sono viscerali, propriocettive, simboliche, sensomotorie e solo in seguito concettuali e intellettive. La rappresentazione di Dio comprende quindi una dimensione inconscia, nel senso che i suoi materiali di costruzione sono le rappresentazioni dei genitori e del sé che, com’è noto, possiedono una dimensione inconscia e legata alle prime esperienze di vita. Tale rappresentazione di Dio, una volta formata completamente, non più tardi del periodo edipico, interagisce nello psichismo individuale per tutta la vita1.
Anche gli studi sull’attaccamento hanno evidenziato l’influenza delle interazioni primarie per la qualità dell’attaccamento con Dio2: la graduale formazione di un attaccamento verso Dio da parte del bambino è infatti mediata da una relazione affettivamente più o meno gratificante vissuta con le figure di riferimento più significative.
Nel sottofondo dell’intreccio possibile fra le teorie psicoanalitiche e quelle dell’attaccamento, in questo articolo vediamo alcune forme in cui la rappresentazione di Dio può venire distorta o deformata, rifiutata o negata, in modo da cercare di comprendere meglio quale sia quella prevalente nello specifico della persona accompagnata, e la sua funzione di «oggetto transizionale» rispetto all’equilibrio psichico, per poter decidere a quali condizioni e in che modo sia opportuno modificarla, destrutturando l’«idolo» e favorendo una relazione più autentica con Dio3. Tutto ciò con l’avvertenza che ogni forma non vuole ridurre a sé il reale ma al contrario analizzarlo meglio. Anche quando la rappresentazione di Dio si trova, fin dalle origini, più in sintonia con l’immagine del Dio misericordioso proposta dalla rivelazione biblica, essa conterrà sempre una miscela di connotazioni negative (in misura minore) e positive (in misura maggiore), per cui occorre che sia continuamente affinata, rispettando la dialettica tra illusione e realtà.
1 A. M. Rizzuto, La nascita del Dio vivente; studio psicoanalitico, Borla, Roma 1994, p. 93ss; il volume è stato presentato in ‹‹Tredimensioni», 1 (2004) pp. 99-108. Della stessa autrice cf anche Processi psicodinamici nella vita religiosa e spirituale, in «Tredimensioni», 3 (2006), pp. 10-30 (anche in www.isfo.it). A questa autrice fa riferimento il presente articolo.
2 Cf S. Bruno S., La costruzione dei legami di attaccamento nel rapporto uomo – Dio, in «Tredimensioni», 5 (2008), pp. 292-302; P. Ciotti, Teoria dell’«attaccamento» e maturazione di fede, in «Tredimensioni», 7 (2010), pp. 266-278.
3 Sul tema delle rappresentazioni di Dio cf anche: S. Morgalla, L’immagine di Dio – un icona o un autoritratto?, in «Tredimensioni», 8 (2011), pp. 270-277; N. Ban, K. Gasperowicz, F. Godiño, Preghiera e stili di personalità, in «Tredimensioni», 7 (2010), pp. 17-33.
Il credente sicuro – semplice (Dio come protettore)
Fanno parte di questa categoria coloro che sono cresciuti durante l’infanzia in un contesto relazionale sufficientemente adeguato e gratificante, che ha permesso la formazione di una rappresentazione di Dio protettiva, con cui poter instaurare un attaccamento sicuro; è la categoria di coloro che hanno un Dio della cui certezza non hanno alcun dubbio.
Il termine semplice sta ad indicare un’elaborazione non adeguata di tale rappresentazione nel successivo periodo adolescenziale, per cui essa rimane legata ai connotati idealizzanti tipici dell’infanzia, concentrati sulla sicurezza e protezione. Il risultato è la formazione di una rappresentazione semplificata, nel senso di proporsi in modo positivo come una figura protettiva e amorevole, ma un po’ isolata affettivamente e poco intima: soprattutto, essa viene investita del compito di essere garante e promessa di una vita priva di difficoltà, dolori e sofferenze4.
La rappresentazione di Dio dipende infatti soprattutto da quella paterna e l’elaborazione della prima rispetto a quest’ultima si può definire minima: Dio è una continuazione diretta e palese della rappresentazione paterna e delle sue qualità idealizzate, «tipica di quella utilizzata dal bambino in latenza, vale a dire priva di contraddizioni, di sofferenza o di interrogativi intellettuali, e pervasa da un’ingenuità priva di complicazioni…»5.
Le principali difese utilizzate sono la rimozione (dei desideri aggressivi e sessuali in particolare) e l’isolamento nelle situazioni in cui la vita diventa avversa e difficile, permettendo di ottenere dal rapporto con Dio, fatto di amore e di attenzioni, soddisfazione e sicurezza per la presenza di un protettore ammirato senza elaborare la difficoltà intervenuta.
Due casi di riferimento.
Il primo è illustrato dalla stessa Rizzuto e fa riferimento alla sig.ra Fiorella D., che a cinquant’anni manifestò per la prima volta angoscia e sintomi fobici, all’inizio limitati alla fobia della chiesa che quasi quotidianamente frequentava e successivamente, in seguito alla morte inaspettata di alcuni parenti, con un loro peggioramento che la costrinsero a stare in casa, dove dedicava tutta la giornata ad aspettare il marito. Quando era da sola provava angoscia, panico, tristezza e paura di morire. La presenza del marito bastava, da sola, a far sparire istantaneamente tutti questi sintomi. Quando incominciò a temere la perdita del marito e dei figli, apparve più chiaramente la base infantile della sua rappresentazione di Dio, come colui che viene meno all’accordo stipulato di proteggerla e vigilare su di lei.
Incapace di provare rabbia nei confronti di Dio o dei suoi cari che secondo lei l’abbandonavano, reagì con l’angoscia e la fobia. Il processo attraverso il quale si formarono i sintomi fobici può descriversi come segue: 1a) mobilizzazione di intensa rabbia (inconscia) nei confronti di un Dio che non mantiene la promessa di proteggerla; 1b) mobilizzazione di intensa rabbia nei confronti del marito che lei teme la abbandoni; 2a) spostamento e trasformazione della rabbia diretta a Dio nella paura di morire in chiesa (claustrofobia); 2b) spostamento e trasformazione della rabbia diretta al marito nella paura di stare fuori con altre persone o da sola in casa senza di lui. La fobia della paziente costrinse il marito a restare con lei e solo con lei.
Queste due fobie le fornirono entrambe una notevole gratificazione, perché, assorbendo in loro la sua aggressività, lei poté conservare intatta l’immagine di sé come persona buona e piena d’amore, e conservare i due rapporti che le offrivano sostegno, quello con Dio e quello con il marito. Senza questo spostamento fobico avrebbe dovuto fronteggiare una grave crisi religiosa, probabilmente del tutto analoga ad una crisi adolescenziale di dubbio e di coscienza, alla quale non era assolutamente preparata. Avrebbe dovuto affrontare le tristezze e i dolori della vita ed accettare le limitazioni della felicità umana. Ma era più di quanto lei si potesse permettere. Si trovò alla mercé (errore ortografico non c’era l’accento) dell’imprevedibilità della morte, e nel suo tormento solitario protesse sia il suo Dio che se stessa con una reazione fobica 6.
Un secondo caso riguarda un marito che, nonostante i ripetuti tentavi di avere un figlio protrattisi per anni (anche attraverso una cura ormonale fatta dalla moglie), aveva sempre espresso la stessa indissolubile e inattaccabile certezza dell’inizio rispetto al fatto che il figlio sarebbe arrivato, senza manifestare mai il minimo dubbio. Proprio quando la realtà divenne così evidente da non poter essere negata, attraversò una profonda crisi religiosa, deluso dal fatto che Dio non era rimasto fedele alle sue promesse. Lui stesso si definì un credente deluso e alla fine mise la questione Dio al margine della sua vita, approdando alla categoria del credente insicuro – evitante.
La sua interfaccia : Il non credente sicuro – indifferente (Dio inutile)
Anche a questo esito potrebbe portare (la Grazia di) un adeguato soddisfacimento (non so bene se era giusto usare l’espressione “eccessiva gratificazione”) dei propri bisogni infantili. Appartengono a questa categoria persone che sono cresciute in un contesto relazionale gratificante, in grado di riconoscere i bisogni affettivi e narcisistici, sviluppando un attaccamento sicuro con le figure di riferimento, in cui è in special modo la rappresentazione materna ad essere accogliente, protettrice, consolante e amorevole, assumendo le caratteristiche tipiche di una base sicura su cui l’individuo potrà sviluppare con fiducia e spontaneità la propria identità, senza percepirsi minacciato da ritorsioni, punizioni o ricatti affettivi.
È invece la figura paterna a non essere stata percepita con la stessa sicurezza: il padre è ammirato per la sua assertività, sicurezza ed efficienza, ma suscita anche spavento e talora angoscia per la sua potenziale distruttività e aggressività. L’ipotesi della Rizzuto è che il bisogno di proteggersi da questi sentimenti dolorosi induca la persona a proiettare sulla rappresentazione di Dio le caratteristiche negative paterne, salvaguardando quelle positive; potendo contare su una base sicura di derivazione materna, non sembra avvertire la necessità di credere e di appoggiarsi ad una figura divina verso la quale mette in atto meccanismi di intellettualizzazione e di isolamento, come appare nel caso seguente.
Alla domanda se crede in Dio, così risponde: «Rimango sempre sorpreso e divertito nel vedere altri profondamente assorbiti in un Dio per il quale io non nutro alcun interesse. Il mio rapporto con gli altri non ce l’ho mediato da Dio, non agisco nel segno di Cristo e non leggo il segno di Cristo nell’agire dell’altro uomo. Se mi pongo invece la domanda su come chiamare quell’Entità a cui si deve l’universo in cui tutti viviamo, ebbene come minimo io la chiamo Dio. Ma questa convinzione che sta nella mia testa non si traduce in nulla, in nessuna di quelle cose che sono legate alla sfera emozionale e affettiva e che un fedele sperimenta nella sua vita. Questa è la risposta un po’ succintamente elaborata alla domanda sull’Ente Supremo, che è al limite delle cose che la ragione spiega, ma non suscita un’influenza sulla mia vita, non diventa una guida dei miei propri comportamenti. Non c’è infatti un Ente supremo che dirige le mie azioni, ma solo la mia coscienza».
4 Questa dinamica corrisponde abbastanza bene, secondo la Rizzuto, all’unica che fornì Freud, facendo derivare la religione da una positiva risoluzione del conflitto edipico, nel senso che i rapporti dell’uomo con Dio riescono a rinnovare l’intimità e l’intensità del rapporto del bambino con suo padre.
5 A.M. Rizzuto, La nascita del Dio vivente, cit. p. 151.
6 Ibid., pp. 167-170.
Il credente insicuro – dipendente (Dio come oracolo)
All’interno di questa categoria si collocano in genere quelle persone che hanno vissuto un’infanzia in varia misura non adeguata rispetto al soddisfacimento dei naturali bisogni narcisistici del bambino di grandiosità ed esibizionismo, di conferma ed approvazione, trovandosi costretti, nel tentativo di compensare almeno parzialmente l’insicurezza che ne deriva, ad iper-idealizzare le figure genitoriali, l’altro strumento a tutela e protezione dell’autostima. Anche la rappresentazione di Dio ha subito un simile processo di iper-investimento, attraverso la proiezione dell’eccessiva idealizzazione delle immagini parentali.
Quando il binomio iper-idealizzazione e insufficiente fiducia personale è presente, l’attaccamento rispetto alla rappresentazione di Dio diventa insicuro ed eccessivamente dipendente (ovviamente è la giusta dipendenza ad essere sana e matura, non l’indipendenza): si assiste pertanto alla tendenza ad appellarsi a Lui come se fosse un «oracolo», chiedendogli cosa fare senza tener conto di se stessi e di cosa si prova, come se la risposta dovesse arrivare in modo estrinseco ed estraneo rispetto alla propria persona e alla propria storia.
Si corre, in tal modo, il rischio di considerare la risposta di Dio, la sua volontà, come una sorta di caccia al tesoro, dove occorre ricercare il maggiore numero di «indizi» utili per riuscire a scoprire quel copione che è già dato e scritto dall’eternità, al pari di un’identità fatta senza di sé, fuori di sé, ma per sé, a cui non si dovrebbe far altro che accedere dopo averla finalmente scoperta.
«La ricerca della volontà di Dio può corrispondere talvolta ad un evitare se stessi, ad un abbandonare se stessi come persona, come “io”. Alcune persone sono in cerca della volontà di Dio senza sapere nulla o voler sapere nulla della loro, come se avere una posizione personale fosse un’offesa a Dio. Forse fanno la figura di cristiani umili, indifferenti alla propria vita, mentre invece c’é forse non poca confusione: Dio serve qui da alibi a una difficoltà, a un’incapacità, a un non diritto immaginari a volere e a decidersi da sé.
Un uomo esitava ad ammogliarsi. Non era sicuro che fosse questa la volontà di Dio. Finalmente si decise cedendo alla pressione insistente della sua compagna. Aveva chiesto a Dio un vago segno: che ci fosse un impedimento se questo matrimonio non era conforme alla sua volontà. Che dire di un tale atteggiamento? Quest’uomo ci teneva a sposare quella donna oppure, non desiderandolo veramente, non osava più fare marcia indietro? In ogni caso, non sapeva nulla e non voleva sapere nulla del suo desiderio. Esaminando più attentamente la vita di quest’uomo che evita, nelle sue relazioni, ogni posizione personalizzata e ogni conflitto, sembra che non abbia avuto il coraggio di tirarsi indietro e che si aspettasse che Dio facesse al suo posto ciò che egli stesso non osava fare».
In questa situazione si può dire che Egli si é fatto riconoscere attraverso l’assenza di risposta; se cosi non fosse stato, sarebbe stata alimentata la confusione di un Dio che realizza, al posto dell’uomo, i desideri e gli atti di cui questi è incapace. Dio ha invece fiducia nell’uomo e non l’ha creato per prendere il suo posto, per esistere in sua vece.
7 N. Meguerditchian, Psicologia e discernimento spirituale, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000, pp. 20-21.
Il credente oppresso (Dio minaccioso).
È colui che più o meno consciamente vive dentro di sé un Dio esigente e inflessibile, a cui doversi sottomettere ma con il desiderio inconfessato di volersene disfare, se non si fosse condizionati dalla sua onnipresente presenza e puntigliosa potenza che lo situano al rango di «super-Dio»8.
Da adulte, queste persone, per timore di essere punite, non hanno più il coraggio di confrontarsi con questo Dio appreso fin dall’infanzia, ma neanche di cacciarlo. Tendono a filtrare il messaggio evangelico secondo le categorie del dovere e del sacrificio, a scapito degli aspetti piacevoli e liberatori. Condizionati dalla loro rigidità la seguono, ma ne avvertono il peso e nei confronti del loro Dio altrettanto pretenzioso ed esigente l’obbligo di obbedire si accompagna ad un inammissibile rancore nei suoi confronti.
Da un Dio così invasivo non possono scappare. E così, rimuovono le immagini negative di Dio e le sostituiscono con altre che sono esattamente l’opposto ma che rimangono qualcosa di non sentito, appiccicaticcio. Con parole proclamano Dio come pastore buono e padre amoroso, ma nel loro intimo serpeggia la sensazione non esplicitata che «questo vale per gli altri, non per me»: dall’amore e dalla bontà di Dio escludono inconsapevolmente se stessi perché nel loro inconscio regna l’altra rappresentazione, quella di un Dio minaccioso. Esternamente sono persone molto ligie e controllate ma internamente a disagio con il loro sentire affettivo, vissuto come il lato debole se non addirittura malizioso di sé.
8 M. Puricelli, Dio o super-dio? Vere e false rappresentazioni di Dio, in «Tredimensioni» 8 (2011), pp. 163-175.
Il credente e il non credente arrabbiato (o ribelle).
Ad un certo punto della vita, un’accresciuta consapevolezza o certi eventi inaspettati sconfessano la propria rappresentazione di Dio e chiedono di rivederla in favore di una rappresentazione più consona rispetto al Dio amorevole rivelato dalle Scritture.
Questo momento instabile, di passaggio, è il momento della crisi religiosa ma anche della rabbia perché Dio non si comporta come noi vorremmo e l’esito dipenderà anche da come viene gestito questo sentimento.
La fase della ribellione nei confronti di Dio è tipica dell’età adolescenziale caratterizzata da un atteggiamento di critica e dubbio, segno del processo di separazione in atto dai genitori, le cui immagini sono variamente presenti nella costruzione della rappresentazione di Dio. Il modo in cui sarà gestita questa normale fase di messa in discussione di molte delle credenze del passato (più adeguata rispetto al mantenimento dello status quo e alle forme di ascetismo adolescenziale che in genere esprimono rispettivamente un arresto o un rifiuto evolutivo), dipende da numerosi variabili, come l’interazione con le altre rappresentazioni interne a livello intrapsichico e l’incontro a livello interpersonale di persone adulte che con coerenza e amorevolezza sappiano parlare di Dio, confrontandosi con libertà e schiettezza sui temi religiosi messi in crisi. Il suo più o meno positivo superamento andrà ad influenzare il modo di risolvere le successive crisi religiose e la «scelta» della categoria prevalente in cui situarsi (nella consapevolezza che il cambiamento è possibile in qualsiasi fase della vita). L’educatore – dunque – nell’attrezzare l’adolescente ad attraversare la sua attuale crisi religiosa lo attrezza anche per quelle future.
Diversi sono gli esiti possibili: ritornare alla categoria di partenza pagando tuttavia il prezzo in termini di sviluppo di sintomi (ad esempio ansia), soprattutto se arrabbiarsi con Dio è poco accettabile, e dunque la rabbia viene sostanzialmente rimossa; passare ad un’altra categoria caratterizzata da deformazioni diverse da quella di partenza ( ad una forma di fede più distaccata o «evitante», oppure ad una troppo sicura e dogmatica); coltivare una sostanziale diffidenza e ostilità verso Dio, fino a negargli, per delusione, l’esistenza, il rispetto e il diritto di essere preso sul serio; far evolvere la rabbia in una positiva ribellione in favore di rappresentazioni più autentiche e liberatorie, che finalmente si oppongono all’«idolo» del dio minaccioso e accusatorio; comprendere il silenzio di Dio come una paradossale forma di disvelamento di Dio, che non intende alimentare ulteriormente la confusione rispondendo come l’uomo vorrebbe.
Anche nell’adolescenza è possibile che i forti conflitti di quell’età portino a spostare parte del loro contenuto di rabbia sulla rappresentazione di Dio con il quale mettersi in conflitto o in posizione di indifferenza.
In alcuni casi infine lo spostamento su Dio della rabbia causata dai fallimenti empatici delle persone affettivamente indispensabile per il bambino avviene (inconsciamente) fin dall’infanzia, ben prima dell’adolescenza: negando Dio diventa perlomeno possibile vivere con loro un’esperienza meno dolorosa e negativa. (Seconda categoria della Rizzuto, caso di Douglas O’ Duffy).
Il credente e il non credente insicuro – evitante (il Dio lontano)
Il credente evitante percepisce Dio in modo impersonale, come uno che ha scarso interesse per lui e i suoi problemi, nutrendo la sensazione che il Dio lontano non si curi molto di lui o che lui possa non piacergli. La formazione di una simile rappresentazione di Dio potrebbe derivare dalla proiezione in Lui di un analogo attaccamento insicuro – evitante percepito nell’infanzia verso i genitori o verso coloro che dovevano prendersi cura: «possiamo aspettarci che quanti hanno maturato una rappresentazione evitante nei confronti delle relazioni strette possano manifestare una forma determinata di agnosticismo o di ateismo, oppure una visione di Dio come remoto, distante e inaccessibile»9.
Questa situazione di distanza relazionale può essere il preludio al diventare un non credente di tipo insicuro-evitante. Entrambi vivono lo stesso stato d’animo di distacco ed evitamento che il non credente sviluppa in delusione e dubbio. Ma anche lui non approfondisce la domanda sul vero Dio: si preoccupa di tenersi a distanza, si ritira da lui senza decretarne la morte, perché è più preoccupato di evitarlo che esplorarlo. Quel Dio lasciato in sospeso potrebbe restare come lontana nostalgia.
M. è una ragazza di 22 anni che a 18 perde la mamma. Con lei, da sempre aveva avuto un rapporto molto particolare, «simbiotico», come da lei stessa definito: per anni avevano vissuto insieme da sole, facendo ad esempio anche in adolescenza delle lunghe vacanze all’estero in paesi esotici, oppure uscendo per interi pomeriggi a fare shopping. Il padre è un imprenditore, molto dedito al lavoro e poco presente in famiglia.
Quando si scoprì, un anno prima della scomparsa, la malattia della madre, M. stava appena iniziando la fase adolescenziale di separazione (dunque in ritardo da un punto di vista evolutivo): erano le prime volte che osava protestare e ribellarsi, ad esempio per gli orari di rientro a casa giudicati troppo restrittivi se paragonati a quelli delle coetanee. Questa improvvida coincidenza con ogni probabilità ha alimentato eccessivi sentimenti di colpa, aggravando il già grande dolore per il lutto, ancora più difficile da elaborare.
Non è difficile immaginare come il senso di vuoto e di abbandono successivo alla morte sia stato ancora più intenso e sconvolgente anche a causa della «simbiosi» protrattasi troppo a lungo, peraltro acuito da due ulteriori lutti nell’arco di breve tempo, la scomparsa delle nonne quando aveva 19 e 20 anni.
Dopo la morte della madre, M. entrò in una profonda crisi religiosa che tuttavia lasciò in sospeso, «buttandosi» invece su un’amicizia con F., poco più grande di lei, piuttosto morbosa, vivendo un mondo di trasgressioni prima sconosciuto, forse motivato anche dal desiderio di «rimanere attaccati alla vita». Poi si era anche «aggrappata» ad un altro ragazzo dal quale accettava passivamente e supinamente ogni cosa, nel tentativo di ristabilire un senso di vitalità o di coesione di se stessa, preferibile rispetto all’angosciante sensazione di non esistere e di vuoto.
Prima del lutto, M descriveva la sua rappresentazione di Dio con caratteristiche prevalentemente materne, anche a causa della sostanziale assenza del padre; in seguito aveva affermato di «non avere più fede, o di fare molta fatica a credere. Non sapeva motivare questo cambiamento, ma ci teneva a specificare che lei non aveva nulla contro Dio e che ogni tanto entrava in qualche chiesa a pregare a modo suo chi esattamente non sapeva chi fosse.
9 U. Ponziani, Psicologia e dimensione spirituale, Il Mulino, Bologna 2004, p. 192.
Il credente troppo sicuro – dogmatico (il Dio specchio).
L’aver vissuto un’infanzia in varia misura non adeguata rispetto al soddisfacimento dei naturali bisogni narcisistici di grandiosità ed esibizionismo, di conferma ed approvazione (similmente al credente insicuro – dipendente), può risolversi in modo difensivo in una rappresentazione di sé idealizzata, connotata da un senso narcisistico di superiorità che la rappresentazione di Dio può fungere da sostegno e conferma.
Siamo di fronte a una sorta di «dio specchio», che si presume avvalli e legittimi le opinioni, credenze e decisioni personali in modo aprioristico e acritico, confidando con eccessiva certezza che le proprie valutazioni coincidano con quelle divine, rischiando di degenerare verso prospettive dogmatiche, dimenticandosi che «i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55, 11).
Tanta «benevolenza» di Dio verso di sé, non viene però applicata agli altri, con il risultato di non essere accoglienti e comprensivi, a volte svalutandoli e giudicandoli senza appello, altre volte idealizzandole eccessivamente: «… una forte istanza di superiorità personale potrà essere riconosciuta in quei comportamenti verso il meta-esperienziale in cui è al centro il bisogno, ben nascosto e difeso anche a se stessi, di sentirsi dalla parte giusta e più illuminata e da cui esercitare valutazioni e giudizi sugli altri. Anche in questo caso è spesso distinguibile un dogmatismo sostanziale e strumentale alla possibilità di ergersi sugli altri e le loro scelte. Questo può esplicitarsi in rigide e acritiche appartenenze»10. Quando questi meccanismi diventano più esasperati è possibile degenerare nel fondamentalismo, che biforca il mondo in buono/cattivo: quello cattivo proiettata all’esterno e quello buono conservato al proprio interno11.
La sua interfaccia: il non credente troppo sicuro – diffidente (Dio sospetto)
La stessa istanza di superiorità che porta a farsi un Dio specchio può anche portare alla sua esclusione, soprattutto se le figure affettive di riferimento sono state poco interessate alla religione e quindi a parlare di Dio al bambino. È una esclusione di tipo diffidente se le carenze affettive e di riconoscimento sono andate a minare la fiducia in se stessi che da adulti si traduce nella difficoltà di riporla anche negli altri (e quindi anche in Dio). La persona diffidente e sospettosa, che tende a percepire il mondo come ostile e minaccioso – in diversa misura a seconda del grado di lacunosità di tali carenze – difficilmente riuscirà a sviluppare una rappresentazione di Dio sufficientemente benevola e sicura, a cui potersi affidare e con cui sviluppare una sana dipendenza, basata appunto in primo luogo sulla fiducia. Tenderà, piuttosto, a mettere Dio nella categoria delle persone sospette.
Le diverse categorie presentate aiutano a comprendere ancora meglio cosa intende la Rizzuto quando definisce da un punto di vista psicoanalitico Dio come un «oggetto transizionale» molto particolare e «vivente».
È caratteristica di Dio di essere sempre a disposizione durante la vita, e di conoscerci fino in fondo, compresi i motivi profondi e le origini antiche delle Sue deformazioni e negazioni: sarà pertanto il primo ad accettare di essere tenuto a distanza dall’evitante, di essere «messo in croce» dall’arrabbiato, di essere lieto per la ribellione dell’oppresso, di essere ignorato dall’indifferente e dal diffidente, di essere usato dal credente dipendente e dogmatico, di essere parzialmente frainteso dal semplice. Allo stesso tempo, non rinuncerà ad esprimere sé stesso e la propria Alterità, talvolta addirittura attraverso il silenzio o le prove inevitabili della vita. Dio non rimane estraneo a quelli che lo cercano, sia pure nella confusione (e si comincia sempre dalla confusione): si lascia conoscere da come possiamo noi per arrivare a conoscerlo come lui è, se lo si vuole cercare veramente.
Un importante aiuto per questa ricerca è l’incontro con persone autentiche e amorevoli, che si rendano segno e testimonianza dell’accoglienza propria della misericordia di Dio. La relazione ha infatti la capacità di cambiare le rappresentazioni interiorizzate, compresa quella di Dio variamente distorta o negata: «di qui ancora una volta e per motivi evangelici e non solo psicologici, l’importanza della relazione educativa. Se anch’essa è una mediazione per aiutare le persone a fare l’esperienza dell’Incarnazione di Dio in loro, controllarne la qualità è una responsabilità della quale nessuna circostanza può sollevare»12.
10 Ibid., p. 197.
11 In forza di questa scissione abbiamo allora, una religione che contrappone trascendenza e immanenza, natura e spirito, istinto e valore, vicini e lontani, noi e loro, magnificazione del proprio gruppo e demonizzazione degli altri. Ciò non per esigenza di religione ma per cattivo modo di relazionarsi ad essa. Una religione così assolutizza la propria purezza, tiene i suoi adepti in uno stato di dipendenza infantile (affascinando l’insicuro-dipendente, specie se deluso) e li porta al fanatismo. Bisogna distinguere fra fanatismo e ritenere come ortodosse le proprie convinzioni e pratiche. La persona fanatica o fondamentalista non è quella che ritiene per vere certe cose. Ciò che la rende tale è il modo di sostenere la verità. La differenza è in termini relazionali. Su questo cf J. W. Jones, Terror and Transformation. The Ambiguità of Religion in Psychoanalytic Perspective, Brunner-Routledge, New York 2002 presentato in «Tredimensioni» 1 (2004), p. 209-218 (anche in www.isfo.it).
12 S. Morgalla, L’immagine di Dio – un icona o un autoritratto?, in «Tredimensioni», 8 (2011), p. 276.