Alice Miller su famiglia, potere e verità
Marco Puricelli e Luisa Passalacqua
Traduzione di Ilaria Palandri
Alice Miller (1923-2010) fu un’eminente psicoterapeuta svizzera di origine polacca. Studiò per il dottorato in psicologia, sociologia e filosofia all’Università di Basilea in Svizzera, per poi completare la sua formazione psicoanalitica a Zurigo. Per vent’anni fu coinvolta nell’insegnamento della psicoanalisi, ma in seguito la sua carriera prese una svolta drammatica: lasciò sia la Società psicoanalitica svizzera sia l’Associazione Psicoanalitica Internazionale per intraprendere uno studio approfondito dei fattori che causano e influenzano gli abusi sui minori. Ciò portò alla pubblicazione di diversi libri, ognuno dei quali affronta questo argomento da una diversa prospettiva. I più degni di nota sono Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé (Miller, 1979) e La fiducia tradita: violenze e ipocrisie dell’educazione (Miller, 1984). Quest’ultimo le valse il premio letterario Janusz Korczak nel 1986.
Luisa Passalacqua, antropologa e counsellor a mediazione artistica di scuola inglese, autrice di numerosi articoli e di un saggio sulla guarigione attraverso l’arte drammatica. Ha collaborato con la British Psychoanalytic Foundation come speaker e redattrice di testi psicoanalitici luisa.alexa@gmail.com
Marco Puricelli, psicoterapeuta psicodinamico, specializzato nel trattamento di adolescenti e giovani adulti. Ha collaborato con l’Università di Milano-Bicocca, nei corsi di Psicologia dinamica e Psicologia dinamica avanzata purimarco@libero.it
Versione ridotta del capitolo Alice Miller on Family, Power and Truth, in D. Morgan (a cura di), A Deeper Cut: Further Explorations of the Unconscious in Social and Political Life, London, Phoenix Publishing House, 2020. Il testo è riprodotto per gentile concessione dell’editore.
psiche 2/2022
È indiscutibile che il nostro è un pianeta dove solo diciotto Paesi su 192 membri delle Nazioni Unite vietano l’abuso fisico dei bambini, un divieto recente al quale la stessa Alice Miller contribuì attivamente mentre era ancora in vita.
Anche in democrazia, diamo tutti per scontato che la volontà di un adulto sia imposta apertamente o di nascosto ai propri figli. Questa condizione non è diversa da quella dei cittadini in uno stato totalitario: i bambini sono proprietà degli adulti, così come i cittadini di un regime totalitario sono considerati proprietà dello Stato (Miller, 1979).
Negli ambienti accademici, Alice Miller fu criticata per aver osservato che i traumi dei bambini erano reali, scaturiti da esperienze concrete di violenza e non da fantasie o dall’immaginazione – in maniera simile a quanto Sigmund Freud aveva sostenuto nella sua prima teoria della seduzione. Forse nei primi lavori della Miller è possibile trovare una sorta di riduzionismo nel considerare le violenze sessuali o fisiche come le uniche forme di abuso infantile. Tuttavia questo concetto fu progressivamente esteso a incorporare forme meno evidenti di abuso emotivo – comprese quelle più sottili e subdole – dove per abuso si intende l’uso che si fa di un’altra persona allo scopo di soddisfare i propri bisogni o desideri, indipendentemente dal permesso della persona in questione e senza rispetto per il suo consenso, i suoi interessi e la sua volontà e in generale la sua identità in quanto diversa da quella del caregiver (Miller, 2007). Anche altre forme di abuso meno evidenti, come il ritiro dell’affetto, generano sofferenza, rabbia e risentimento inconsci che si trasformeranno in violenza più avanti, nell’età adulta, auto o eterodiretta. Questo concetto di abuso è fondamentale per capire in che modo l’infanzia sia segnata da traumi reali piuttosto che da fantasie, pulsioni o desideri «inconfessabili» del bambino.
Come società, siamo così abituati a essere testimoni di abusi emotivi che smettiamo di prestarvi attenzione. La maggior parte degli abusi avviene a porte chiuse e non c’è nessuno che possa testimoniare o convalidare l’esperienza degli abusati. Tipicamente, non solo l’abusante negherà ogni forma di abuso, ma anche l’abusato si troverà in difficoltà a comprendere la portata delle proprie ferite, anche da adulto, avendo dovuto alterare la verità come meccanismo estremo di difesa, avendo idealizzato i carnefici, e non avendo avuto a disposizione termini di paragone.
Ancora oggi, ciò che di negativo è accaduto ai bambini, di qualunque forma si tratti, ha in genere scarso interesse: nessuna organizzazione di bambini li difende come classe e la metapsicologia sembra non avere un modello adeguato a descrivere la discriminazione dei bambini (Miller, 1979).
D’altra parte, con la conoscenza odierna di ciò che il trauma causa al cervello e alla psiche umana, la posizione netta di Miller contro le teorie pulsionali della psicoanalisi è molto più comprensibile per molti professionisti attuali, che hanno reintegrato più o meno palesemente e consapevolmente la teoria di Miller nelle loro pratiche. Quindi non è più un’eresia sostenere che le teorie pulsionali appartengano alla stessa mentalità che ha sempre aiutato genitori ed educatori a giustificare gli abusi fisici, emotivi e sessuali sui bambini.
Miller intuì che Freud aveva scoperto la seduzione dei bambini da parte dei genitori, ma che questa verità si era rivelata inaccettabile ai suoi tempi. Se Freud avesse insistito sulla teoria della seduzione avrebbe affrontato la completa opposizione e il totale ostracismo da parte della borghesia del tempo. La teoria del complesso edipico gli permise di salvare l’immagine dei genitori (Miller, 1984): nonostante il carattere indubbiamente innovativo e investigativo della ricerca freudiana, si può dire che egli rimase essenzialmente un rappresentante della società borghese e patriarcale.
Il trauma infantile come fonte di violenza
Il modo in cui Miller contribuisce al dibattito è attraverso l’esame delle biografie di personaggi famosi con l’analisi delle loro storie d’infanzia. Il suo lavoro si concentra principalmente su personalità disturbate, dittatori assetati di sangue, serial killer e individui che hanno rivolto la loro distruttività contro se stessi. Ma si estende tuttavia anche a chi, grazie all’arte, ha saputo liberarsi da un passato violento sublimandolo, e a chi al contrario ha ceduto all’autodistruzione nonostante l’arte.
Nel suo lavoro La chiave accantonata (1994) Alice Miller esplora gli indizi sulle connessioni tra traumi infantili da un lato e creatività e distruttività degli adulti dall’altro. Ciò ha chiare implicazioni per la comprensione di quella distruttività umana su larga scala che coinvolge in modo fin troppo attuali fenomeni di massa più ampi su scala geopolitica. I personaggi dell’arte e della politica i cui primi anni di vita furono studiati e comparati in vari libri includono Dostoevskij, Cechov, Schiller, Rimbaud, Mishima, Proust, Joyce, Kafka, Nietzsche, Picasso, Kollwitz, Buster Keaton, Hitler, Stalin, Ceausescu – e la lista continua. Dalle analisi presentate in La chiave accantonata si evince che l’educazione degli artisti e quella dei dittatori sono sorprendentemente simili.
Miller approfondisce ulteriormente le ricerche biografiche fino ad individuare la presenza o meno, accanto al bambino, di un testimone consapevole, ovvero qualcuno cui il bambino può rivolgersi per trovare validazione, conforto o aiuto. Non deve trattarsi necessariamente della madre, potrebbe essere una zia o una sorella, come nel caso di Kafka e Dostoevskij, o una tata, o persino un’infermiera, come nel caso di Balzac. Inoltre, non importa se il testimone sia consapevole di questo ruolo fondamentale che si trova a svolgere, che esercita attraverso l’empatia e la compassione verso il bambino.
Secondo Miller, avere o meno un testimone consapevole durante l’infanzia determina se un bambino maltrattato diventerà un despota che indirizzerà la sua impotenza repressa contro gli altri o un artista che racconterà tale sofferenza.
Il punto cruciale della teoria di Miller è che gli individui che non ricordano i maltrattamenti, le violenze e le umiliazioni inflitte loro durante la loro infanzia, e che quindi non possono vivere i sentimenti spiacevoli che ne derivano nei confronti dei loro genitori, sono destinati a spostare la loro rabbia repressa su soggetti più deboli. Inoltre questa è una dinamica che resiste ad ogni argomento razionale, perché ha le sue radici profonde nell’inconscio.
Non a caso, infatti, sebbene le biografie offrano abbondante materiale contenente informazioni preziose, raramente riguardano qualcosa di rilevante per comprendere l’infanzia di personaggi anche molto noti. Quando si trova qualcosa, i genitori sono spesso idealizzati dalle descrizioni degli storici. Miller spiega che un approccio più approfondito a tali biografie difficilmente sarebbe apprezzato da coloro – e sono la maggioranza – che hanno la tendenza a idealizzare i propri genitori (Miller, 2007).
L’odio e la distruttività possono essere espressi in modi diversi da parte dei tiranni, attraverso il ricorso all’allettante supporto di diverse ideologie; in ogni caso hanno tutti la stessa radice nella famiglia, nessuno escluso.
Scrivendo di Saddam Hussein, Miller nota che ogni tiranno senza scrupoli mobilita le paure e le ansie represse di coloro che sono stati picchiati da bambini ma non hanno mai potuto accusare i propri padri di averlo fatto, mantenendo così loro fede nonostante i tormenti subiti per loro mano. I bambini picchiati, tormentati e umiliati che non hanno mai ricevuto il sostegno di un testimone di aiuto sviluppano in seguito un alto grado di tolleranza per le crudeltà inflitte dalle figure genitoriali e una sorprendente indifferenza per le sofferenze sopportate dai bambini esposti a trattamenti crudeli (Miller, 2004).
Adolf Hitler aveva interiorizzato perfettamente l’atteggiamento sadico del padre, tanto che quando alzava la voce e aveva esplosioni di rabbia, chiunque lo ascoltava tremava come un bambino spaventato. Lo stesso sadismo si è poi ritrovato in quei milioni di persone che gli hanno concesso legittimità e la brutale efficienza che conosciamo dai libri di storia (Miller, 2007).
Miller andò alla ricerca delle vere motivazioni dell’azione di molti altri dittatori. In tutti individuava gli effetti dell’odio verso un genitore rimasto inconscio non solo perché era severamente vietato odiare il padre, ma anche perché era nell’interesse dell’autoconservazione del figlio mantenere l’illusione di avere un buon genitore. Solo nella forma di una deviazione verso gli altri era consentito l’odio, e quindi poteva fluire liberamente (Miller, 1998).
A differenza del prigioniero di un campo di concentramento che affronta un odiato aguzzino sapendolo, il bambino affronta come suo persecutore il suo genitore più amato, e questa tragica complicazione è ciò che influenzerà in peggio la sua vita futura (Miller, 1980). Per un bambino che cresce in una famiglia senza un testimone consapevole, i suoi genitori rappresentano il suo intero universo. In una situazione così drammatica è inevitabile che sviluppi una spinta distruttiva (Miller, 2007).
Quando un bambino è sottoposto a un’educazione opprimente, isola o nega i suoi sentimenti di dolore, rabbia, sofferenza, tristezza, delusione. Ciò a sua volta provoca una riduzione della vitalità e produce un senso di alienazione da se stesso e dai propri bisogni e desideri autentici (Miller, 1980). Da adulti, molti preferirebbero morire, letteralmente o simbolicamente, neutralizzando i propri sentimenti, piuttosto che mantenere vivo quel senso di impotenza, di fronte alla realtà di due genitori che usano il bambino per soddisfare i propri bisogni, o come bersaglio del loro odio negato, o anche come fonte di amore di cui hanno bisogno (Miller, 1998).
Perdono strumentale
Molte istituzioni religiose che allevano bambini e adolescenti lo fanno promuovendo una pedagogia nera, un’espressione coniata da Katharina Rutshky in Schwarze Pädagogik (citata da Miller, 1980); con ciò si intende un approccio educativo repressivo basato su punizioni e regole rigide, e più in generale su un atteggiamento distaccato e amoroso condizionato, spesso razionalizzato attraverso la tradizionale pretesa che sia attuato per il bene del bambino.
Su questa linea, il quarto comandamento, generalmente insegnato in forma abbreviata come Onora tuo padre e tua madre, è servito a innescare un senso di colpa in miliardi di adolescenti e adulti nel corso dei secoli, a causa dei loro sentimenti ambivalenti nei confronti dei genitori (Miller, 1990; 2001). A quanto pare, questo comandamento suona come un obbligo di accettare incondizionatamente i propri genitori sottomettendosi a loro. In realtà, nella sua forma originaria, questo comandamento aveva un significato diverso: incoraggiava a dare il giusto peso ai genitori in quanto potenti influenze nel futuro di un figlio (Sibaldi, 2012).
Naturalmente la comoda reinterpretazione del quarto comandamento in termini di sottomissione ai genitori ha reso omaggio ai genitori con disturbi narcisistici. A differenza della maggior parte degli studiosi, Miller lo disse chiaramente: molti pazienti, da bambini, sono stati gli oggetti investiti narcisisticamente delle loro madri. Se è così, la cultura del perdono indiscriminato ha favorito da un lato il perpetrarsi degli abusi, dall’altro l’accentuazione del senso di colpa dei figli dei narcisisti, i cosiddetti co-narcisisti (Rappoport, 2005). Questo fenomeno è sistematicamente trascurato nella pratica psicoterapeutica, dove il focus è sui pazienti: le astrazioni teoriche collocano questi ultimi all’interno di costrutti che implicano che la loro patologia si sia sviluppata in un vuoto relazionale in cui i genitori si comportavano normalmente – peccato che qualcosa sia poi andato misteriosamente storto.
Se il paziente adulto sospetta che la sua vera fonte di sofferenza risieda nelle sue esperienze infantili, il terapeuta ottuso lo rassicura dicendo che certamente non è così, e che anche se lo fosse il paziente deve imparare a perdonare, perché è proprio il suo risentimento che lo fa ammalare. Tali terapeuti convenzionali, intrisi di secondi fini pedagogici, non sono in grado di aiutare veramente i loro pazienti e per compensare questo vuoto di competenza possono solo offrire loro la loro morale personale. Il paziente è convinto che il terapeuta parli in base alla sua esperienza e si rimette alla sua autorità. Non sa – e non ha modo di scoprire – che tali affermazioni esprimono effettivamente la sua stessa paura dei propri genitori.
In definitiva, Miller sostiene che il perdono non risolve l’odio, ma lo copre, salvo da adulto ricorrere allo spostamento su qualche capro espiatorio, che è esattamente ciò che permette di tramandare il trauma da una generazione all’altra. Di fatti, la specialista in traumatologia Katharina Drexler, in un articolo sui traumi transgenerazionali, scrive che la maggior parte dei traumi irrisolti viene trasmessa alle generazioni future attraverso l’introiezione del genitore traumatizzato (Drexler, 2013).
Pertanto, esercitare anche la minima pressione su un paziente affinché perdoni i suoi genitori non solo è inutile, ma è anche controproducente: «Non è possibile costringere a donare tale perdono mediante prescrizioni e divieti; esso è sentito come una grazia e appare spontaneamente quando non ci sia più l’odio represso, perché proibito, ad avvelenare l’animo» (Miller, 1980, 221).
La consapevolezza sull’origine della sofferenza mentale in qualche modo costringe gli psicoterapeuti a prendere posizione rispetto all’ambiente sociale che circonda i pazienti. Per Miller, il processo psicoterapeutico implica necessariamente un processo di identificazione in cui esistono solo due possibilità contrapposte: il terapeuta può identificarsi con il paziente da bambino oppure può identificarsi con i suoi genitori. Il terapeuta sarà in grado di identificarsi con uno solo alla volta, in diverse fasi della terapia. Ma nel secondo dei due casi il terapeuta, minimizzando le ferite dell’infanzia, temendo il dolore e le rabbie represse, o cercando di voler prematuramente integrare il buono col cattivo, non avrà accesso alla verità infantile del paziente, e quindi nemmeno il paziente. Di conseguenza, quest’ultimo, traumatizzato dai suoi genitori da bambino, si trova ora di fronte a un nuovo genitore, l’analista stesso che, pur di coprire le responsabilità dei suoi genitori, ricorrerà al complesso edipico, finendo per colpevolizzarlo e per negare la realtà effettiva dei vissuti traumatici emersi durante l’analisi. Per Miller si tratta di un vero e proprio abuso terapeutico, risultante da diverse varianti della paura originaria che hanno i terapeuti di ferire i propri genitori, per evitare l’estrema sofferenza che comporterebbe. Ma questo è esattamente ciò che ci si aspetta da un buon terapeuta: un individuo può sopportare una tale sofferenza solo se ha accanto qualcuno in grado di sopportarla con lui. Con le parole di Neville Symington, non si tratta di dire la cosa giusta, ma di essere consapevoli del dolore dell’altra persona, e di non dire nulla che possa proteggere noi e il paziente dal viverlo (1996).
Il terapeuta politico
Se lo psicoterapeuta entra nel ruolo del testimone consapevole starà dunque senza esitazioni dalla parte del bambino, di cui si fa portavoce il corpo. Con l’aiuto dei sintomi (una depressione, una fobia, un’ansia prolungata o intensa, una malattia psicosomatica, una nevrosi, ecc.) il corpo, che si attiene ai fatti e non alle costruzioni mentali, protesta e al contempo insiste, senza rassegnarsi; protesta contro il distacco dai veri sentimenti e bisogni; insiste perché ci si riappropri della verità degli abusi subiti. Le teorizzazioni psicoanalitiche, al contrario, negano o addirittura rovesciano questa verità.
Melanie Klein, con il suo concetto di bambino crudele, così come Kernberg, con la sua teoria del narcisismo patologico innato del bambino, ignorano la natura reattiva dello sviluppo del bambino e non tengono conto del fatto che si tratta dei bisogni insoddisfatti dei genitori e del loro atteggiamento verso il bambino che generano in quest’ultimo forme di aggressività, sessualità e narcisismo, e non viceversa (Miller, 1984).
Altri autori evidenziano maggiormente l’importanza dei fattori ambientali, come Kohut, Mahler, Masterson, Winnicott, Khan, Bowlby e altri. Ma Miller non condivide la loro ambizione teorica di scoprire, dietro lo sviluppo del bambino, gli obiettivi universali e i fattori che potessero svolgere un ruolo nella patogenesi. Ad esempio: per Kohut, la mancanza di vicinanza emotiva; per Mahler, la difficoltà nella fase di separazione e riconciliazione; per Masterson, l’essere divorati o la sottrazione di affetto nei tentativi del bambino di diventare autonomo; per Winnicott, la mancanza di appartenenza materna; per Kahn, la mancanza di protezione materna di fronte agli stimoli, ecc. Per Miller, tutti questi fattori hanno in sé qualcosa di traumatico, ma potrebbero non portare inevitabilmente alla nevrosi se potessero essere elaborati in quanto ferite dolorose. Questo riconoscimento, di per sé, è già terapeutico. L’approccio analitico suggerito da Miller è la ricerca della realtà della prima infanzia di un paziente evitando ogni tentativo di risparmiare i suoi genitori. È fondamentale focalizzare l’attenzione non solo su ciò che accade al bambino, ma anche al genitore nel momento stesso del maltrattamento, e negli stessi termini che usiamo per il bambino: pulsioni, meccanismi di difesa, negazione, razionalizzazione, spostamento, ecc.
Quando le cose vengono chiamate con il loro vero nome, emergono i sentimenti più scomodi: indignazione, persino orrore. Difatti, la capacità – o incapacità – dello psicoterapeuta di provare orrore di fronte ai racconti dei pazienti solleva interrogativi sul ruolo della psicoterapia nella società e sulla posizione dello psicoterapeuta non come professionista, ma piuttosto come cittadino.
Non conosciamo alcun protocollo terapeutico che preveda un’ulteriore fase successiva, alla fine della terapia, in cui il paziente porta la sua nuova consapevolezza fuori dal setting ad influenzare intenzionalmente il suo habitat. Una simile prospettiva sarebbe considerata dalla mentalità psicoterapeutica tradizionale come un agito, un sottoprodotto patologico di un processo teapeutico incompleto. Ancora una volta, Miller viene in nostro sostegno.
In La persecuzione del bambino (1980), prendendo come esempi la Germania nazista e la guerra in Vietnam, Miller confrontò l’infanzia dei soldati americani professionisti che prestarono servizio in Vietnam su base volontaria e scoprì che i criminali di guerra più vendicativi erano quelli cresciuti brutalmente durante la loro infanzia.
Più di recente, uno studio empirico (Oliner e Oliner, 1988; cit. anche da Miller, 1998) ha concluso che l’unico fattore che distingue i soccorritori dai persecutori e dai tirapiedi è il modo in cui sono stati cresciuti dai genitori. Le persone che ricevono affetto e sostegno precoci sono pronte a emulare la natura comprensiva e autonoma dei loro genitori. Allo stesso modo, nell’attivismo, la rabbia è al servizio dell’ego, quindi è più integrata nella personalità e incanalata in qualcosa di costruttivo; essa non deriva dal rifiuto, dall’abbandono o da altri gravi traumi inconsci. Si tratta quindi di un’energia che deriva da una relazione con genitori sufficientemente buoni o da un’elaborazione terapeutica dei traumi di cui sopra, che ha portato a una personalità più integrata. Per dirla con Winnicott (1987), una madre sufficientemente buona pone le basi non solo della salute mentale, ma anche della forza di carattere del bambino e della ricchezza della sua personalità, nonché della capacità di essere felice, di ribellarsi e di fare una rivoluzione.
Alice Miller on family, power and truth
This article explains how the childhood history of politicians and their followers can shed light on some national and international historical and current events characterized by dictatorship, violence, genocide. The excursus starts from the theory of Alice Miller, a former psychoanalyst, to highlight the connection between childhood traumas and large-scale violence and the psychological mechanisms that make a traumatized child a violent dictator or an enabler. Similarly to how Miller did, this text raises the question of the relationship between clinical practice and religion, particularly when it comes to forgiveness for the abuses suffered in the family. Bringing forward the criticism that Miller makes of bourgeois psychoanalysis as well as psychotherapy as an institution, we come to conceive a different role of the therapist in the micropolitical context in which the child’s drama is embedded, a role that presupposes a new awareness of power dynamics in the family, as they risk being repeated in the consulting room. Consequently, sooner or later the professional is called to take a «political» stance with respect to the dynamics that lead the patient into therapy.
Keywords: childhood, dictatorship, enabling, witness, family, power, truth, politics.
Riferimenti bibliografici
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