I disturbi dell’alimentazione riflettono molti degli aspetti considerati da Alice Miller illustrati e rielaborati nel sito.
Nel caso dell’anoressia si scopre tipicamente come i pazienti abbiano la ferma convinzione di essere impotenti e inefficaci, senza che siano tuttavia in grado di ricondurre questo stato ad esperienze simili vissute nel corso dell’infanzia. La malattia spesso si manifesta in “brave bambine” che nonostante raccontino di un’infanzia “stupenda” hanno passato la loro vita cercando di compiacere i genitori, diventando improvvisamente testarde e negative durante l’adolescenza, affermando paradossalmente se stesse attraverso il digiuno, come fosse una sorta di forma estrema e inconscia di protesta. In altri termini, l’anoressia diventa un tentativo di cura di sé, per sviluppare attraverso la disciplina del corpo un senso di efficacia interpersonale nel tentativo di superare la posizione premorbosa dell’essere una bambina perfetta, che di solito nasconde al contrario un profondo senso di inutilità e vuoto.
La bambina anoressica aveva dubitato seriamente che i genitori o altre figure significative della sua vita potessero mettere da parte, anche solo temporaneamente, i loro interessi e bisogni per soddisfare le sue esigenze di rassicurazione, conferma e rispecchiamento. Può quindi incrementare progressivamente il digiuno e le restrizioni nel disperato tentativo di obbligare i genitori a prestare attenzione alla sua sofferenza, a riconoscere il suo bisogno di aiuto e ad accorgersi del falso sé iper-sviluppato per la mancanza di una comunicazione vera e di una sintonizzazione affettiva autentica.
Quando invece questa stessa indispensabile comunicazione è stata indebitamente infarcita di sensi di colpa, di false “preoccupazioni”, di rimproveri, paure, “quando parole e gesti servono esclusivamente a edulcorare il rifiuto del bambino, l’odio, la nausea, la repulsione, allora il bambino respinge quel «nutrimento» che deve farlo crescere, lo rifiuta e più tardi potrebbe scegliere l’anoressia senza sapere quale sia il cibo di cui ha bisogno. Non ha esperienza, infatti, e pertanto non sa nemmeno che esiste. La persona adulta, che ha forse una vaga percezione dell’esistenza di quel nutrimento, può affogarsi di cibo, inghiottire indiscriminatamente tutto, sempre alla ricerca di ciò di cui ha bisogno, ma che non conosce. Diventa bulimica. Non vuole rinunciare a niente, vuole mangiare, senza mai smettere, senza limiti”[1].
Mi hanno molto colpito le parole di una giovane ragazza anoressica che così si rivolge in un diario ai genitori a ai medici che hanno cercato senza successo di curarla in una clinica specializzata: “Qui, nel mio paese, mi sento un’estranea, a volte mi sembra di essere una lebbrosa soltanto perché non voglio essere né diventare quello che voi avete in mente ch’io debba essere. Non mangiando sono riuscita a dimostrarvelo. Guardatemi! Vi faccio ribrezzo? Tanto meglio, così vi accorgete che qualcosa non va, di me o di voi. Voi girate la testa dall’altra parte, mi prendete per matta. Sì, mi fa male, ma sempre meno che diventare come voi. Sono matta in modo diverso, sono scappata da voi perché mi rifiuto di tradire me stessa diventando come voi. Voglio sapere chi sono, che cosa sono venuta a fare in questo mondo, perché proprio adesso, perché nella Germania meridionale…”[2].
Nell’anoressia è come se il corpo continuasse a dire di non volere “questo”, ma non sa dire che cosa. Soltanto dopo che il paziente è riuscito a vivere le proprie emozioni accanto a un testimone che mostri una piena empatia e non le minimizzi, soltanto dopo che ha scoperto in sé la paura precoce suscitata dal non essere visto e riconosciuto è riuscito a migliorare.
Nel piacere del cibo, acquisito di nuovo, si riflette il piacere dei nuovi contatti con le persone che le dimostrano sensibilità senza che ci si debba più sforzare di cercarla in coloro che non intendono offrirla.
[1] Miller A., 2005, La rivolta del corpo. Come superare i danni di un’educazione violenta, Raffaello Cortina Editore, p.118.
[2] Ibid. p.120