Il concetto di abuso è fondamentale per comprendere in che senso l’infanzia sia segnata da traumi reali piuttosto che da fantasie, pulsioni o desideri “inconfessabili” del bambino. Per Alice Miller questo concetto è ben più ampio rispetto al maltrattamento fisico o sessuale per cui viene spesso ricordata: “esistono numerose altre forme di trauma infantile che non sono di natura sessuale e che conducono ugualmente a rimozioni e di conseguenza a disturbi psichici”[1].
E’ indiscutibile la gravità del fatto che in soli 18 dei 192 paesi membri dell’ONU sia vietato picchiare i bambini, tuttavia in un sito dedicato alla psicoterapia è particolarmente importante comprendere l’accezione più ampia – e non meno grave – dell’abuso, fondamentale per comprendere in che senso l’infanzia sia segnata da traumi reali. Per Alice Miller abusare significa “servirsi di qualcuno per tutto ciò che si vuole da lui, in funzione di ciò per cui ci può essere utile in una determinata circostanza. Dall’altro si esigono semplicemente delle cose senza chiedergli se è d’accordo, senza rispetto per la sua volontà, per i suoi bisogni e interessi”[2].
Coi bambini si ha buon gioco in questo, perché essendo del tutto dipendenti dai genitori sarebbero disposti a qualunque cosa per essere amati da loro, e non tarderanno ad eseguire i compiti richiesti se servono per ottenere l’affetto (stare buoni, composti, educati, puliti), dovendo oltretutto crescere minimizzando i traumi subiti per non essere annientati dalla paura. L’abuso psicologico non avrebbe conseguenze così devastanti sui bambini se non fosse accompagnata dalla loro fiducia assoluta nei genitori e dalla convinzione che essi non possano sbagliare: diventa così molto facile scambiare l’amore per molteplici surrogati
“La maggiore crudeltà che si possa infliggere ai bambini è quella di non consentire loro di esprimere la propria ira e il proprio dolore, senza correre il rischio di perdere l’amore e l’affetto dei genitori. L’ira provata nella prima infanzia viene immagazzinata nell’inconscio e, dato che esso rappresenta fondamentalmente un sano e vitale potenziale di energia, per mantenere rimosso tale potenziale occorre impiegare un’equivalente quantità di energia. L’educazione al rispetto per i genitori che si ottiene a spese della vitalità del bambino non di rado conduce al suicidio o a una estreme dipendenza dalla droga, che è anch’essa una specie di suicidio. […] Esistono mille forme di crudeltà che fino ad oggi non sono state ancora esplorate, perché le ferite inflitte al bambino e le loro conseguenze sono ancora poco conosciute.[…] Nella vita della maggior parte delle persone si possono individuare le seguenti singole tappe: 1) subire da piccoli ferite che nessuno considera tali; 2) non reagire con ira al dolore; 3) mostrare riconoscenza per essere stati – come si dice – «beneficati» (idealizzazione); 4) dimenticare tutto; 5) in età adulta, scaricare su altre persone (in special modo sui «deboli», subalterni, figli…) tutta la rabbia immagazzinata, o dirigerla contro di sé”[3]. Vediamo alcune di queste forme di crudeltà, comprese quelle subdole e solo in apparenza meno gravi, attraverso cui il bambino può essere usato, con conseguenze paragonabili ad abusi più espliciti ed oggettivabili.
Ad esempio una madre molto servizievole e in apparenza “devota” può essere molto bisognosa e sensibile al rifiuto (per una serie di conflitti che si porta a sua volta dall’infanzia). Può convincersi che il suo piccolo non lo ama perché non sta ancora sorridendo o forse può sentirsi rifiutata quando il bambino inizia a provare interesse per il mondo che lo circonda, o quando esprime la propria aggressività e vitalità, nelle situazioni in cui morde, graffia, le tira i capelli, calcia e grida. Potrebbe allora in questi momenti critici “trasformarsi in un essere vendicativo e mettere in atto delle ritorsioni”[4], attraverso il rancore e il ritiro dell’affetto, attuando difese basate sull’aggressione passiva (un meccanismo inconscio). Ma per un bambino essere ignorato significa non esistere, rischiare di sperimentare angosce intensissime. “Molti genitori, per esperienza ancestrale inconscia, trattano male il bambino con uno scopo preciso: ottenerne la sottomissione, la dipendenza e l’attaccamento. Se, approfittando di una qualsiasi azione sbagliata del bambino, lo si priva dell’affetto, per un po’ non lo si guarda, non gli si risponde, ci si muove come se lui non ci fosse, accade che a un certo punto il bambino chiederà scusa, verrà a toccare la mano del genitore, chiederà in qualche modo attenzione allo scopo di «fare pace», perché per lui sentirsi privato dell’affetto è insostenibile. Se è molto piccolo non sa, né può sapere, che l’atteggiamento del genitore è provvisorio, ed è possibile che, se la cosa si prolunga, il bambino possa fare in quei momenti un’esperienza di morte. I più grandi si sentono «solo» intensamente in colpa”[5]. Il silenzio, non dare la possibilità di reagire, di controbattere, produce le angosce maggiori: il contrario dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza. Eppure con ogni probabilità in questa dinamica sottile si resterà completamente all’oscuro della violenza psicologica subita.
Esistono inoltre genitori che si preoccupano molto per il loro bambino, fino a decidere al posto suo particolari anche minimi, che in genere hanno a che fare soprattutto con l’esteriorità e con le cure pratiche, essendo in difficoltà nell’arte della carezza, dell’abbraccio, del contatto e della tenerezza. Il bambino può facilmente scambiare questa cura minuziosa per la pulizia, il cibo e la salute per amore invece che considerarla come una difficoltà rispetto al soddisfacimento di bisogni più profondi di stima, protezione e calore, che sarebbero per lui molto più importanti. Crescendo potrebbe pensare di essere addirittura un privilegiato, dal momento che per esempio i genitori dei suoi amici non sembrano essere così attenti e preoccupati come i propri.
Altri genitori sembrano in difficoltà nel tollerare non solo l’aggressività ma anche le ansie e le paure dei loro bambini, minimizzandole costantemente (“stai tranquillo, ma sì non è successo niente”), oppure diventandone eccessivamente partecipi e coinvolti senza essere in grado di contenerle, ritrasmettendo a loro volta intensi sentimenti di preoccupazione e ansia non rielaborati a sufficienza.
Altri genitori potrebbero invece essere in difficoltà nel sintonizzarsi rispetto alle emozioni positive: quando il bambino esprime il suo entusiasmo potrebbero essere in difficoltà nel gioire con lui (“non ti esaltare troppo, vedrai che poi la vita non sarà così facile, etc.”)
E’ molto difficile diventare consapevoli di quanto si sia realmente subito, soprattutto quando l’uso del bambino è stato meno esplicito, quando molteplici microtraumi ripetuti e cumulati nel tempo hanno prodotto effetti analoghi, se non più gravi, di macro eventi traumatici.
Alice Miller si rese conto pienamente della propria sofferenza e della portata di quello che aveva subito soltanto dopo i cinquant’anni: “La prima esperienza col muro del silenzio l’ho fatta da bambina. Mia madre si compiaceva di non rivolgermi la parola per giornate intere, solo per dimostrarmi in questo modo il suo potere assoluto e impormi l’ubbidienza. Aveva bisogno di questo potere per nascondere a se stessa e agli altri la propria insicurezza, e anche per sottrarsi al rapporto con una figlia che non aveva mai voluto. […] Ma ancor più tormentoso del silenzio era lo sforzo continuo, disperato della bambina di scoprire finalmente la causa di quella tortura. […]. Cerca, scava, sforzati fino a quando la coscienza ti dirà di che colpa ti sei macchiata. Solo allora potrai cercare di scusarti e, a seconda dell’umore della tiranna e se avrai fortuna, ti sarà forse perdonato. Sapevo forse che la mia vita era incominciata in un regime totalitario? E come avrei potuto saperlo? Non mi rendevo nemmeno conto che mi si trattava in modo sadico e crudele. Non avrei mai osato pensarlo. Piuttosto di mettere in discussione mia madre, era disposta a dubitare della sensazione d’essere trattata in modo ingiusto e di essere disprezzata. S’aggiunga che non conoscevo altre madri, che non potevo fare dei paragoni, e dal momento che mia madre diceva di se stessa di sacrificarsi e di essere perfettamente consapevole dei suoi doveri, io volevo crederle. E dovevo anche crederle, perché la conoscenza della verità m’avrebbe uccisa. Dunque – pensavo – la colpa dev’essere della mia cattiveria se la mamma non mi parla, se non risponde alle mie domande, se mi ignora quando la prego di darmi una spiegazione, se sfugge i miei sguardi e corrisponde con freddezza al mio amore. Se la mamma mi odia, evidentemente merito quest’odio: così pensa il bambino. Il ricordo del senso d’isolamento di quei giorni, della solitudine della bambina che cerca disperatamente la ragione della punizione che le é stata imposta, é rimasto per quasi sessant’anni completamente rimosso in me. Ho tradito dunque, con la rimozione, la piccola bambina che voleva capire a ogni costa le assurdità del comportamento della madre, per poter finalmente cambiare la propria sorte, per indurre finalmente la madre – di cui aveva assoluto bisogno – a parlare. Ho dovuto tradirla perché nessuno mi ha aiutata a vedere e a sopportare la verità, perché nessuno mi ha aiutata a condannare le crudeltà”[6].
“Mi ci sono voluti 20 anni e più per sbarazzarmi della mia negazione, poiché ero così sola con la conoscenza del mio corpo e dei miei sogni, e un muro di negazione mi circondava ogni volta che aprivo bocca. Scrivere e dipingere erano i soli modi per continuare le mie ricerche senza venire ferita e “punita” per essere l’artefice dei problemi.
La reazione ai miei scritti mi ha mostrato che ciò che avevo scoperto per me stessa era vero anche per altri. Allora mi sono sentita meno sola. Ho cominciato a lavorare con dei gruppi di giovani genitori e ho trovato ancora e ancora lo stesso modello, la cecità emozionale dei genitori che erano spaventati di affrontare i loro traumi del passato e li infliggevano inconsciamente ai loro figli. E adesso, noi li ritroviamo insieme in questo forum. Così, per la prima volta nella mia vita, non mi sento più una straniera, mi sento appartenente a un gruppo di persone che pensa come me, che non ho bisogno di convincere, di informare, di muovere, di risvegliare. Sono qui con delle persone che non sono spaventate da ciò che dico, che mi capiscono perché hanno conosciuto lo stesso terrore, che dicono tante cose che mi commuovono profondamente e con le quali posso comunicare apertamente come ho sempre voluto senza aver mai avuto prima la possibilità.
Tutto questo è molto più di quanto avrei mai osato sperare. Parlare liberamente delle proprie emozioni, senza usare le difese convenzionali molto ben conosciute, a mio avviso era possibile solo in sogno o su un altro pianeta. E ora, con mia grande sorpresa, questo diventa una realtà. Incredibile! Allora, per piacere, non vedetemi come un guru, ciò mi metterebbe ancora in una posizione nella quale non voglio stare. Non sono né il vostro professore né il vostro maestro, non voglio consigliarvi né imporvi qualsiasi cosa, non sono vostra madre o vostra nonna, sono Alice, una sorella nel dolore.”[7]
In una delle sue ultime opere, La rivolta del corpo, Miller analizza la biografia di scrittori famosi, dalla sensibilità e intelligenza profonde e raffinate, doti che tuttavia non sono bastate per comprendere le ferite della propria infanzia, a causa della loro solitudine per non aver avuto la grazia di incontrare testimoni consapevoli. Avevano cominciato a intuire la verità di se stessi, che trapela dalle loro opere solo parzialmente: vivendo isolati e in una società schierata dalla parte dei genitori non hanno potuto trovare il coraggio di rinunciare alla negazione. Dostoevskij nei Fratelli karamazov descrive un padre spietato, ma nelle lettere inviate al padre reale e studiando a fondo la biografia non sembra esserci affatto la consapevolezza dei sentimenti di terrore e minaccia vissuti nell’infanzia, né del loro legame con lo stato di salute molto precario; Dostoevskij soffriva cronicamente d’insonnia e si lamentava di avere incubi nei quali probabilmente si manifestavano i suoi traumi infantili senza che egli ne avesse consapevolezza. Anche Cechov nel racconto Il padre descrive con presumibile veridicità la figura del genitore che era stato in passato servo della gleba e alcolizzato. Questo racconto è considerato un capolavoro ma è rimasto del tutto scisso dalla vita cosciente dello scrittore. Analogamente in tutta la grandiosa opera di Nietzsche si ascolta il grido di chi vuole liberarsi dalla menzogna, dallo sfruttamento, dall’ipocrisia e anche dalla propria arrendevolezza, ma nessuno, e lui meno di tutti, è riuscito a vedere fino a che punto avesse sofferto di tutto ciò da bambino, nonostante la testimonianza del corpo gravato da innumerevoli malanni.
La scrittrice Virginia Woolf soffrì di depressione per tutta la vita e studiando la psicoanalisi freudiana finì col credere che gli abusi subiti fossero frutto della propria fantasia: questo le fu molto dannoso e la sua depressione aumentò gravemente (del resto chi ha subito un abuso tipicamente desidera credere ardentemente che non sia stato vero).
Tutti queste biografie testimoniano come sia necessaria una maggiore consapevolezza dei traumi e delle ferite che può subire un bambino, la cui gravità non deve mai essere sottovalutata o minimizzata se si desidera una società migliore.
[1] Miller A., 1989, Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico, Bollati Boringhieri Editore.
[2] Miller A., 2009, Riprendersi la vita. I traumi infantili e l’origine del male, Bollati Boringhieri Editore, p. 183
[3] Miller A., 1987 (ristampa ottobre 2013), La persecuzione del bambino, Bollati Boringhieri Editore, p. 94
[4] Winnicott D.W., 1987, I bambini e le loro madri, Raffaello Cortina Editore Milano, p.58.
[5] Della Seta L., Debellare il senso di colpa, Marsilio Editore, 2010, pp. 150-151.
[6] Miller A, 1995, La fiducia tradita, pp. 22-25.
[7] www.nontoglietemiilsorriso.org/drupal/articoli-miller