“Il distacco dalla psicoanalisi, maturato gradualmente nelle opere degli anni Ottanta (Immagini di un’infanzia, Il sapere esiliato, La chiave accantonata, Infrangere il muro del silenzio) giunge a maturazione in Du sollst nicht merken, che fin dal titolo (Tu non devi accorgerti) propone il tema della rimozione delle violenze infantili, un tabù da cui nemmeno la psicoanalisi è riuscita a liberarsi. Nella premessa al libro Miller dà notizia della sua uscita dalla Società Psicoanalitica Svizzera e dall’Associazione Psicoanalitica Internazionale, spiegando che la psicoanalisi è strutturalmente incapace di comprendere il dramma della violenza, dell’uso e dell’abuso infantile; di più: essa impedisce l’accesso a questa conoscenza, perché considera fantasie quelli che sono accadimenti reali. La psicoanalisi non è dunque solo inefficace, ma addirittura dannosa, nella misura in cui ostacola la presa di coscienza del dramma dell’infanzia e rafforza la sua rimozione.
Freud ha presentato una teoria della seduzione quale causa delle nevrosi in Eziologia dell’isteria, del 1896, abbandonandola poi in favore della teoria del complesso edipico, con la quale fa della realtà della seduzione una fantasia del bambino. Ma, si chiede Miller, come è possibile che i bisogni sessuali del bambino vengano poi rimossi così profondamente da rendere necessaria l’analisi per farli riemergere (Miller 2010, 45-46)? Il bambino non sa, non può sapere che quei desideri sono incestuosi, e quindi proibiti. Questa è una cosa che sanno solo i genitori. La teoria del complesso edipico implica che i desideri del bambino siano colpevoli, mentre essi, se anche fossero reali, sarebbero del tutto innocenti. Nella colpevolizzazione del bambino Miller scorge una proiezione del senso di colpa degli adulti, un procedimento che trova conferma nell’analista, che istintivamente prende le parti dei genitori e li difende dalle accuse del paziente. Lo psicoanalista può aiutare realmente il paziente solo se diventa l’avvocato difensore del bambino che è in lui, se ne comprende empaticamente le ragioni, se crede alle sue accuse. Per fare ciò, ha bisogno anche di essere pienamente consapevole della condizione dei bambini nella nostra società, del fatto che essi sono soggetti privi di diritti, esposti a qualsiasi uso e abuso. Dopo aver elaborato la teoria delle pulsioni, Freud, denuncia Miller, ha fatto dei maltrattamenti infantili un vero e proprio tabù.
Fra i suoi allievi, sarà il solo Ferenczi a riprendere a sviluppare coraggiosamente la tesi dell’origine traumatica delle nevrosi, presentando al XII Congresso Internazionale di Psicoanalisi a Wiesbaden, nel 1932, una relazione dal titolo Confusione delle lingue tra adulti e bambini2; un intervento che provocò la rottura con Freud ed a detta di Miller fu anche all’origine di una vera e propria persecuzione nei confronti di Ferenczi da parte del mondo psicoanalitico, fino al punto di calunniarlo facendolo passare per psicotico. È lo stesso atteggiamento di ostilità che Miller ha avvertito nei confronti della sua ricerca. Non una critica aperta e centrata sull’analisi delle sue tesi, ma reazioni infastidite, elusive, un ostracismo diffuso e mai apertamente motivato.
L’analisi, per la Miller, non è possibile senza un processo di identificazione dell’analista. Ora, le possibilità sono due: l’analista può identificarsi con il bambino che è nel paziente oppure con i suoi genitori. Non vi sono alternative. Potrà solo identificarsi ora con l’uno ora con gli altri, in momenti diversi della terapia. Ma in questo secondo caso, l’analista non avrà accesso alla realtà infantile del paziente, così come non l’ha il paziente stesso. […] Il paziente, che da bambino è stato traumatizzato dai genitori, si trova ora di fronte un nuovo genitore, l’analista stesso, che pur di coprire le responsabilità dei suoi genitori ricorrerà al complesso edipico, finendo per colpevolizzare lui stesso il paziente e per negare la realtà effettiva dei vissuti traumatici emersi durante l’analisi”[1]. Miller riconosce come il pensiero psicoanalitico si sia evoluto molto dalle intuizioni del capostipite, ponendosi in una nuova prospettiva, avente una maggiore considerazione per i fattori ambientali riguardo alla patogenesi delle nevrosi. “Ciò si verifica chiaramente in Kohut, nella Mahler, in Masterson, Winnicott, Khan, Bowlby e altri. Ma le argomentazioni teoriche (e non le presentazioni dei casi) di questi autori cercano di scoprire, alle spalle dello sviluppo del bambino, la presenza di fattori obiettivi e universali che possano intervenire nella patogenesi. Essi citano per esempio: la mancanza di vicinanza emotiva (Kohut), le difficoltà della fase di separazione e di riavvicinamento (Mahler), l’essere divorati o la sottrazione dell’affetto nei tentativi di autonomia del bambino (Masterson), la carenza del contenitore materno (Winnicott), o la mancanza della protezione materna di fronte agli stimoli (Khan), l’assenza del padre e così via. E’ ovvio che tutti questi fattori hanno un significato traumatico, ma forse non conducono inevitabilmente alla nevrosi, se possono essere vissuti (e compresi emotivamente in terapia) come traumi dolorosi. Questo però non accade con i genitori che si temono o che si devono rispettare, e il trauma dovrà essere rimosso, un evento – questo – che produce la nevrosi”[2].
In ultima istanza il paziente ha bisogno di scoprire la verità della propria storia, di non minimizzare il proprio dolore, il sacrificio di se stesso, le paure e le angosce rimosse proprio perché troppo reali e intense da sopportare, di rivivere – o meglio vivere per la prima volta in modo cosciente – i traumi infantili.
“Gli psicoanalisti di orientamento relazionale condividono pienamente la critica alla concezione pulsionale dell’essere umano e riconoscono in Alice Miller una compagna di cammino straordinariamente coraggiosa alla quale corrispondeva di combattere da sola, senza scendere a nessun compromesso. Non vorrei farle torto nel sostenere che, di fatto e con grande vigore, ella si è inserita in una tradizione progressivamente rivalutata negli anni, cominciata con Ferenczi e ripresa da Fairbairn, il quale affermava che la libido non è in cerca di soddisfacimento pulsionale ma di relazione, e contemporaneamente da Fromm, Sullivan, Karen Horney e, successivamente, Kohut e tutta la psicoanalisi contemporanea di orientamento relazionale”[3].
Ritengo tuttavia – in estrema sintesi e sarebbe interessante approfondire e discuterne – che il rischio attuale della psicoanalisi ad orientamento relazionale sia di cadere, anche velatamente, in una sorta di relativismo o di costruttivismo, in cui l‘analisi della complessità del sistema dinamico intersoggettivo analizzato è nei fatti a discapito dell’empatia per il bambino, della realtà dei traumi subiti, della sua verità che è oggettiva proprio in quanto soggettivamente vissuta veramente e soltanto da lui: l’esclusione dalla psicoanalisi non potrebbe essere in questo caso più radicale.
[1] Vigilante Antonio, Educazione e violenza in Alice Mille, http://educazionedemocratica.org,, file pdf p. 276 e seg.
[2] Miller A., 1989, Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico, Bollati Boringhieri Editore, p.217.
[3] Lorenzini Alberto, 2010, www.sipreonline.it/static/upl/in/inricordodialicemiller-1.pdf