Alle origini del malessere

Non è per niente facile comprendere fino in fondo la condizione in cui ognuno di noi si è venuto a trovare nell’infanzia, nonostante il suo carattere universale, né le sue possibili conseguenze e ripercussioni.

Il bambino si trova fin dalla nascita in uno stato di assoluta dipendenza dai genitori (intesi come le persone che lo crescono): ha bisogno di amore o, perlomeno, dell’illusione di un amore. Ricevere affetto e approvazione da loro, evitando le punizioni, equivale per lui all’ossigeno per respirare, al cibo per nutrire il corpo; non può assolutamente farne a meno.

Sarebbe disposto a fare qualsiasi cosa, a diventare chiunque, a plasmare se stesso pur di smorzare l’angosciante senso di rifiuto, di abbandono e di solitudine per la deprivazione affettiva, che non avrebbe ancora la forza di sopportare (si veda “cosa si intende per abuso” per un approfondimento).  

Allo stesso tempo il bambino avrebbe un altro “compito” fondamentale per stare bene: esprimere se stesso, essere spontaneo, venire riconosciuto nelle proprie emozioni, come la paura e la rabbia, essere in contatto con i propri bisogni, come ad esempio di comunicazione sincera, di curiosità e più in generale di vita, scoprire e realizzare i propri desideri e interessi.

In sintesi: bisogno di ricevere affetto da un lato e bisogno di essere se stesso dall’altro, in una condizione di assoluta dipendenza.  E’ una condizione normale, universale, in cui ciascuno di noi si è trovato; eppure la percezione di quanto questa condizione sia vulnerabile, delicata, rischiosa, è spesso sottostimata.

Quando questi bisogni sono entrambi soddisfatti, il bambino ha ricevuto senza saperlo la miglior sorte che potesse desiderare, la più grande eredità affettiva: si pongono in questo caso nell’infanzia “non soltanto le basi della sua salute mentale, ma anche della forza del carattere e della ricchezza della personalità dell’individuo, della sua capacità di godere e di utilizzare in futuro ciò che di buono il mondo gli può offrire, persino la capacità di ribellarsi e di fare una rivoluzione se necessario”[1].

Ma quale sarà la sorte del bambino per il quale questi due fondamentali bisogni, affetto ed espressione di sé, siano stati percepiti come antagonisti, contradditori? Cosa accade quando per ricevere affetto, approvazione e tenerezza il bambino è costretto a sacrificare la propria autenticità e spontaneità? Ecco un bambino: è la gioia dei genitori, sembra circondato di amore, ovunque vada c’è intorno qualcuno a fargli le coccole, a parlargli con voce melliflua. Ma che succede appunto se quel bambino non si comporta come gli altri si aspettano? Che succede se segue i propri bisogni, e non quelli dei genitori? Se così non è, il bambino può essere rimproverato o picchiato, oppure può accadere che i genitori mostrino di volergli meno bene: ed è difficile dire quale delle cose provochi più sofferenza al bambino. Il quale finirà in questo modo per adeguarsi alle esigenze dei genitori, mettendo da parte le proprie.

Il punto cruciale è che il bambino non sa che si sta sacrificando, non sente che sta soffrendo per l’alienazione da se stesso: non può saperlo né sentirlo, almeno per tre motivi. Innanzitutto la sua condizione di assoluta dipendenza lo rende inevitabilmente “ingenuo”: egli deve idealizzare i genitori per illudersi di ricevere amore, deve fidarsi che lo amino, né più né meno per sopravvivere (psichicamente). Inoltre sarebbe troppo fragile per essere consapevole di una tale angoscia, deve rimuoverla per poter rimanere in vita. Infine è confuso perché non dispone alla nascita di unità di misura, di riferimenti circa l’adeguatezza delle cure ricevute; non può fare confronti, paragoni con altri ambienti: la sua famiglia è l’unica realtà che conosce e non può essere che “normale”. Ciò che è normale infatti si dovrebbe basare su una media di molteplici situazioni di cui il bambino non può fare esperienza. D’altra parte i genitori il più delle volte sono all’oscuro del fatto di stare “usando” il loro bambino, per riempire ferite e vuoti affettivi derivanti a loro volta dalla propria infanzia, comportandosi come automi a causa della loro inconsapevolezza.

Il bambino che si affida e dipende totalmente dai genitori si presta a “curare” le loro ferite, a farli sentire finalmente importanti, speciali, unici, a poter essere bersaglio di rabbie represse, ad essere persino dominato, laddove i genitori molti anni prima nella propria infanzia avevano sperimentato a loro volta una grande impotenza, frustrazione, solitudine, sottomissione, delusione, in modo spesso inconscio o in gran parte non rielaborato.

“Uno dei cardini della terapia è che il paziente arrivi a una comprensione emotiva del fatto che tutto l’«amore» che si era conquistato con tanta fatica e a prezzo della rinuncia a espri­mere se stesso non riguardava affatto l’individuo che era in realtà: l’ammirazione per la sua bellezza e le sue brillanti prestazioni era tributata alla bellezza e alle prestazioni, non al bambino reale. Dietro la buona prestazione si riaffaccia nella terapia il bambino, piccolo e solo, che si domanda: «Come sa­rebbe andata se di fronte a voi ci fosse stato un bambino catti­vo, rabbioso, brutto, geloso, confuso? Dove sarebbe finito in tal caso tutto il vostro amore? Eppure io ero anche tutto questo. Ciò non vorrà dire, forse, che non sono stato amato io, ma ciò che fingevo di essere? Il bambino educato, coscienzioso, capa­ce di mettersi nei panni degli altri, comprensivo, il bambino comodo, che in fondo non era affatto un bambino? Che cosa ne è stato della mia infanzia? Non ne sono stato forse defraudato? Mai potrò recuperarla. Fin dal principio sono stato un piccolo adulto. E delle mie capacità non se ne è forse abusato?» A queste domande si accompagnano un profondissimo lutto e un’annosa sofferenza, che un tempo è stata rimossa, ma a cui sempre segue la comparsa di una nuova istanza interiore (per così dire erede della madre che non è mai esistita): l’empatia col proprio destino, nata dal lutto”[2].  

Entrare in contatto con la verità della sofferenza subita, con il dolore e la paura provati da piccoli, scoprirne le origini e la conseguente successiva rabbia repressa per questo trattamento così ingiusto (non importa se attuato senza volerlo, per il bambino conta solo ciò che è stato fatto), è un cammino difficile e arduo, dato che la sopravvivenza psichica si è dovuta basare proprio su questa negazione e sulla rimozione di questi sentimenti. Comporta pertanto un cambio di prospettiva radicale, un ribaltamento di ciò in cui si credeva, una mente lucida, un uscire da se stessi per poi rientrarvi in modo più profondo. E’ quasi impossibile riuscirvi da soli: è necessaria la presenza empatica di un “testimone consapevole”. Anche Alice Miller ne ha avuto bisogno (si è trattato dello psicologo Konrad Stettbacher).

Anche se questa progressiva scoperta è dolorosa, si tratta di una sofferenza temporanea, che libera, ha un senso e guarisce non in modo illusorio o superficiale (si veda “differenze e analogie” [con altre terapie]).

[1] Winnicott D.W., 1987, I bambini e le loro madri, Raffaello Cortina Editore Milano, p.50.

[2] Miller A., 1996 Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé (riscrittura e continuazione), Bollati Boringhieri Editore.