Traumi infantili e origine dell’odio verso sé e gli altri
Marco Puricelli¹.
I bambini non amati – in modi e intensità differenti – sono stati espropriati del loro diritto di vivere e da adulti saranno più propensi a difendersi dagli altri che a costruire in serenità la loro vita. Perché? Che cosa è successo in loro e nei loro genitori? Come aiutarli?
Questo articolo presenta il pensiero di Alice Miller (1923-2010), psicoterapeuta e saggista svizzera che sull’argomento (vissuto, fra l’altro, sulla propria pelle) ha dedicato una vita di studi corredata da una vasta produzione letteraria composta da più di dieci libri, iniziata nel 1979 con il libro forse più celebre Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé e conclusa con l’ultima sua pubblicazione (2009) Riprendersi la vita. I traumi infantili e l’origine del male. Forse poco conosciuta dal grande pubblico, è sul tema una voce molto attuale e imprescindibile.
L’io in esilio
Questo è il prezzo che l’adulto deve pagare per aver rinunciato a se stesso. È la depressione di chi, fin dall’infanzia, si è sempre dovuto chiedere che cosa gli altri volessero da lui e, così facendo, non solo ha trascurato i suoi bisogni e sentimenti primari, ma non li ha neanche potuti conoscere.
Sottoposto ad un’educazione repressiva, il bambino ha dovuto reprimere i suoi sentimenti di dolore, rabbia, sofferenza, tristezza, delusione, il che, nel corso dell’esistenza, ha prodotto in lui una riduzione della vitalità e un senso di alienazione da se stesso e dai suoi bisogni e desideri più autentici. Il tipo di educazione che pretende rispetto per i genitori a spese della vitalità del bambino ( e che senza mezzi termini l’autrice definisce «pedagogia nera»2) conduce alla depressione che può manifestarsi in varie forme, dalla distruzione di sé alla ricerca di successo e di continua ammirazione3.
L’ira provata nella prima infanzia viene immagazzinata nell’inconscio e, dato che l’inconscio rappresenta fondamentalmente un sano e vitale potenziale di energia, per mantenere rimosso tale potenziale occorre impiegare un’equivalente quantità di energia. Da adulti, molti preferirebbero morire, o muoiono simbolicamente devitalizzando i propri sentimenti, piuttosto che mantenere viva l’impotenza del bambino piccolo quando viene usato dai genitori per soddisfare i loro bisogni o come bersaglio per i sentimenti di odio che essi hanno accumulato nel tempo, o per ricevere amore invece di offrirlo.
L’idea di non essere stati amati – non importa se inconsapevolmente – dai propri genitori è insopportabile alla maggior parte delle persone. Quanto più numerosi sono i fatti che alludono a questa mancanza, tanto più gli individui si aggrappano all’illusione di essere stati amati. Si aggrappano anche ai sensi di colpa, delegati a confermare che la mancanza di cure amorevoli da parte dei genitori si era verificata solo per colpa loro, per i loro errori e fallimenti e, così, non si percepiscono più vittime ma colpevoli. Ma nonostante questi espedienti, l’esilio da se stessi rimane. La sofferenza del presente comunica e rivela alla persona quella rimossa del passato.
1. Psicologo psicoterapeuta, Gallarate (VA) e Milano, cultore di psicologia dinamica presso la facoltà di psicologia dell’università di Milano-Bicocca
2. Per «pedagogia nera» la Miller intende un approccio educativo repressivo, basato su castighi, punizioni, regole rigide e più in generale una relazione distaccata e mai troppo amorevole, spesso razionalizzata con il fatto di essere messa in atto «per il bene del bambino». Oggi questa pedagogia appare sotto le forme più velate di amore (a volte anche eccessivo) dove il bene che ne può scaturire è quello dei genitori stessi e non del bambino, e dunque una pedagogia più difficile da percepire. A. Miller, La persecuzione del bambino. Le radici della violenza, Bollati Boringhieri, Torino 2013.
3. Ibid., La persecuzione del bambino, Bollati Boringhieri, Torino 1987 (ristampa 2013), p. 94.
La ribellione del corpo
A queste ipocrisie il corpo non ci sta. Il corpo, per la Miller, sa la verità, si attiene ai fatti, a ciò che è successo realmente, non a ciò che speravamo, credevamo o ci illudevamo fosse successo. Il corpo necessita del libero fluire delle emozioni che cambiano costantemente: la rabbia, il dispiacere, la gioia. Se bloccate, non può più funzionare in maniera normale4. Il prezzo dell’inconsapevolezza è pagato con la malattia del corpo.
Il corpo si ammala. Con l’aiuto dei sintomi (una depressione, una fobia, un’ ansia prolungata o intensa, una malattia psicosomatica, una nevrosi…), al contempo, protesta e insiste senza rassegnarsi. Protesta contro il distacco dai veri sentimenti e bisogni. Insiste perché ci si riappropri della verità. Consapevole dell’importanza di vivere i sentimenti più vitali e autentici, il corpo osa comunicarlo «alla rovescia» con la depressione, insistendo perché sia possibile comunicare con il bambino che è vivo in noi e che in anni lontani è stato privato dell’amore di cui aveva bisogno. Se l’appello è raccolto, sarà possibile uscire dallo stato di sfinimento sbloccando nuova energia, in quanto non sarebbe più necessario spenderla per rimuovere la verità, e per negare emozioni represse da tempo come la rabbia e l’odio.
Con l’aiuto dei sintomi, il corpo costringe dunque ad ammettere la verità anche a livello cognitivo. All’inizio, il sistema cognitivo afferma il contrario di ciò che le cellule del corpo hanno inconfutabilmente accumulato, essendo diventato l’espressione della difese erette contro l’angoscia e la delusione, e rinforzate sempre di più dal sistema di norme, teorie, credenze e concezioni acquisite nel corso degli anni. Ma quando il sistema cognitivo inizia a prendere in considerazione le preziose informazioni del corpo, le sue funzioni possono riprendere normalmente. Si tratta di ristabilire una sorte di alleanza in cui il sistema cognitivo, ammettendo di sapere ben poco di antichi accadimenti e di vissuti affettivi, può tuttavia offrire il suo sapere e ragionamento, la sua intelligenza e capacità riflessiva, ri-orientandole a servizio di una nuova e più profonda comprensione.
Emerge, così, l’importanza di comprendere i messaggi del corpo che nei casi più gravi di rimozione è rimasto l’unico depositario della verità, l’ultimo baluardo a difesa della persona. (Con una lettura più teologica a mio avviso molto interessante e certamente da approfondire: lo Spirito di Verità, spirito paraclito difensore si manifesta nella carne).
I motivi della rimozione
È importante soffermarsi sui motivi per cui i traumi vissuti dell’infanzia sono così tanto inconsapevoli, scissi, rimossi, mascherati da racconti di un’«infanzia felice» o dimenticati del tutto.
Per la Miller la spiegazione sta nella situazione particolarissima e vulnerabilissima dell’infanzia: il bambino si trova fin dalla nascita in uno stato di assoluta dipendenza dai genitori (caregivers); ha bisogno di amore o, perlomeno, dell’illusione di un amore. Ricevere affetto e approvazione da loro, evitando le punizioni, equivale per lui all’ossigeno per respirare.
Ma il bambino è troppo fragile per essere consapevole dell’angoscia derivante dalla sottrazione dell’affetto. Per poter rimanere in vita la deve rimuovere. La rimozione, da piccoli, è salvifica. Inoltre la condizione di assoluta dipendenza rende il bambino completamente leale, «ingenuo», e fiducioso: egli deve idealizzare i genitori per illudersi di ricevere amore, deve fidarsi che lo amino, né più né meno per sopravvivere (psichicamente). L’abuso psicologico non avrebbe pertanto conseguenze così devastanti sui bambini se non fosse accompagnato dalla loro fiducia assoluta nei genitori e dalla convinzione che essi non possano sbagliare: è molto facile per loro scambiare per amore i suoi molteplici surrogati.
“Al prigioniero sottoposto a maltrattamenti non è consentito opporre resistenza o ribellarsi alle umiliazioni. Però è libero di odiare dentro di sé il suo aguzzino. Questa possibilità di vivere i suoi sentimenti, anzi di condividerli con altri prigionieri, gli consente di non dover rinunciare al proprio Sé. È questa l’opportunità che manca al bambino. Egli non deve odiare suo padre, come ordina il quarto comandamento e come gli fu inculcato sin da quando era piccolo, ma d’altra parte non può neppure odiarlo, pena il perderne l’amore e infine non vuole odiare, perché lo ama. Un bambino si trova quindi, non come l’internato di un lager, di fronte al suo odiato aguzzino, ma di fronte al suo amato persecutore e sarò proprio questa tragica complicazione a esercitare un influsso decisivo sulla sua vita futura». La normale reazione a tali lesioni della propria integrità prevista dalla natura per curarle sarebbe di ira e dolore, ma poiché in un ambiente simile l’ira rimane un sentimento proibito per il bambino e poiché l’esperienza del dolore sarebbe insopportabile nella solitudine, egli deve reprimere tali sentimenti, rimuovere il ricordo del trauma e idealizzare i suoi aggressori. In seguito non sarà più consapevole di ciò che gli è stato fatto.”
4. A. Miller, Riprendersi la vita. I traumi infantili e l’origine del male, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. 26-28.
Che cosa s’intende per abuso
Il concetto di abuso è fondamentale per comprendere in che senso l’infanzia sia segnata da traumi reali piuttosto che da fantasie, pulsioni o desideri «inconfessabili» del bambino6. Per la Miller abusare significa non soltanto maltrattare fisicamente o sessualmente ma più in generale e non meno gravemente «servirsi di qualcuno per tutto ciò che si vuole da lui, in funzione di ciò per cui ci può essere utile in una determinata circostanza. Si esigono delle cose senza chiedergli se è d’accordo, senza rispetto per la sua volontà, per i suoi bisogni e interessi»7. Con i bambini si ha buon gioco in questo grazie alla necessità della rimozione.
Fra le mille forme di crudeltà che si infliggono ai bambini «la maggiore è quella di non consentire loro di esprimere la propria ira e il proprio dolore, senza correre il rischio di perdere l’amore e l’affetto dei genitori»8. «Se, approfittando di una qualsiasi azione sbagliata del bambino, lo si priva dell’affetto, se per un po’ non lo si guarda, non gli si risponde, se ci si muove come se lui non ci fosse, accade che ad un certo punto il bambino chiederà scusa, verrà a toccare la mano del genitore, chiederà in qualche modo attenzione allo scopo di “fare pace”, perché per lui sentirsi privato dell’affetto è insostenibile. Se è molto piccolo non sa, né può sapere, che l’atteggiamento del genitore è provvisorio, ed è possibile che, se la cosa si prolunga, il bambino possa fare in quei momenti un’esperienza di morte. I più grandi si sentono “solo” intensamente in colpa»9. È lo stesso muro del silenzio sperimentato da piccola dalla Miller, di cui è divenuta pienamente consapevole attraverso un lungo percorso ventennale concluso dopo i cinquant’anni e addirittura ostacolato da due precedenti psicoanalisi.
5. A. Miller , La persecuzione del bambino, cit., p. 105
6. Il «peccato originale» della psicoanalisi consiste nel ritorno di Freud sui propri passi: dopo aver presentato una teoria della seduzione quale causa delle nevrosi in Eziologia dell’isteria, del 1896, la abbandonò poi in favore della teoria del complesso edipico, con la quale fa della realtà della seduzione una fantasia del bambino. La teoria del complesso edipico implica che i desideri del bambino siano colpevoli, mentre essi, se anche fossero reali, sarebbero del tutto innocenti. Nella colpevolizzazione del bambino Miller scorge una proiezione del senso di colpa degli adulti, un procedimento che trova conferma nell’analista, che istintivamente prende le parti dei genitori e li difende dalle accuse del paziente. La psicoanalisi è strutturalmente incapace di comprendere il dramma della violenza, dell’uso e dell’abuso infantile; di più, essa impedisce l’accesso a questa conoscenza, perché considera fantasie quelli che sono accadimenti reali. A. Miller, Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 217.
7. A. Miller A., Riprendersi la vita, cit., p. 183.
8. A. Miller A. La persecuzione del bambino, cit., p. 94
9. L. Della Seta, Debellare il senso di colpa, Marsilio Editore, Venezia 2010, pp. 150-151.
La genesi dell’odio
I sentimenti di ira, impotenza, disperazione, desiderio struggente, paura e dolore – ormai scissi da ciò che li aveva motivati – continuano a esprimersi in atti distruttivi rivolti contro gli altri, come drammatica alternativa rispetto al rivolgimento contro se stessi.
Il bambino disprezzato – o apprezzato solo nella misura in cui si adatta alle richieste dei genitori – diventa un adulto che disprezza tutto ciò che negli altri gli appare debole, ossia colpisce il bambino che è negli altri, quale proiezione del suo bambino interiore. Altre modalità di difendersi dalle crudeltà subite riversandole sugli altri riguardano una grande varietà di atteggiamenti manipolatori, antisociali, ricattatori o altri fenomeni come la prostituzione, le perversioni e gli abusi sessuali, la criminalità e la guerra. In forma meno estreme ma più comuni, l’odio viene riversato su persone sostitutive “deboli” (i bambini, il partner, i pazienti, i fedeli, i subordinati, i dipendenti nel lavoro…). Ancor più tipicamente vittime di tali atti vendicativi saranno i propri figli, trattati come capri espiatori il cui attacco sarà sempre legittimato non appena lo si definisca «educazione». Il tragico è che si maltrattano i propri figli appunto per non prendere atto di ciò che ci hanno fatto i nostri genitori. «Una madre che, pur non volendo, si lascia “scappare” la mano non sa che picchia suo figlio solo perché vi è spinta dal suo corpo e dai ricordi che vi sono racchiusi (in genere, la madri che non sono state picchiate da piccole non si lasciano “scappare” la mano). Ma una volta che ne sia consapevole, potrà meglio relazionarsi con quell’aspetto, potrà controllarsi meglio e risparmiare sofferenze sia al figlio che a se stessa»10.
Assistiti dal testimone soccorrevole
Il corpo sa tutto ciò che è successo, ma non è in grado di esprimerlo a parole. È come il bambino che siamo stati un tempo, che vede tutto ma è inerme e impotente. La persona afflitta dal corpo sofferente ben difficilmente potrà tradurre da sola il linguaggio cifrato dei sintomi.
Ci vuole la presenza di qualcuno che riconosca la sofferenza che il bambino e poi l’adolescente è stato costretto a negare (un familiare, un educatore, un insegnante, qualcuno che sappia «vedere», definito dalla Miller «testimone soccorrevole»11): se non si incontra nessuno che stia veramente e totalmente dalla parte del bambino e che fornisca quest’assistenza morale, se tutte le istituzioni (educative, scolastiche, ecclesiali, socio-sanitarie) sono solidali con la negazione o la minimizzazione dei traumi dell’infanzia, chi soffre senza essere cosciente dei motivi non avrà altra scelta che stare al gioco anche lui, comportandosi come se non gli fosse successo niente. Si sforzerà, senza saperlo, di portare avanti la sua finzione di sempre, anche se richiede un grande dispendio di energia. Ma è una finzione che il corpo accetterà sempre meno e presto o tardi il disagio si farà sentire sempre di più, tramite l’insorgere o l’acuirsi di sintomi, in modo circolare.
La terapia non è affatto un’impresa facile, perché si tratta di rovesciare l’immagine dei propri genitori, di opporsi apertamente ad una lunga tradizione che esige un rispetto quasi religioso nei loro confronti e di giungere ad accusarli apertamente, con le conseguenze emotive che si possono immaginare. Si tratta di risalire insieme la corrente della colpa e della negazione, e il terapeuta deve impugnare saldamente e con fermezza il timone, per non tornare senza scampo alla deriva. Solo una presa di posizione radicale ed autentica potrebbe aiutare la persona ad entrare in contatto, all’inizio solo confusamente, con i sentimenti di ira, dolore e tristezza repressi nel corpo spesso da decenni.
Il testimone consapevole è quel terapeuta capace di esprimere senza esitazione al paziente la sincera indignazione per il modo con cui è stato trattato da piccolo, veicolata anche con il linguaggio non verbale, con l’appropriato tono di voce e la necessaria enfasi, perché le parole non risuonino vuote e non producano l’ennesima scissione tra pensiero ed emozioni.12 La Miller considera l’indignazione uno dei veicoli principali della terapia, anche prima che l’interessato stesso sia in grado di avvertirla in sé, per offrirgli una vera empatia, che non può conoscere mezze misure, non può e non deve sforzarsi di far integrare al paziente il buono col cattivo, agendo da «bravi terapeuti»: «la persona divenuta adulta è chiamata a far crescere in sé l’empatia per la bambina di cui nessuno ha visto la sofferenza poiché la piccola è stata usata nell’interesse dei genitori; interesse che essendo lei tanto dotata, era perfettamente in grado di soddisfare. Se ora è giunta al punto di percepire quella sofferenza e di offrire compagnia alla bambina che è in lei, non dovrebbe più soppesare i momenti cattivi contrapponendoli a quelli buoni, poiché in tal modo ricadrebbe nel ruolo infantile di bambina che vuole appagare i desideri dei genitori: amarli, perdonarli, ricordare i momenti belli…. Da piccola ha continuamente cercato di farlo, con la speranza di capire le contraddizioni dei loro gesti e messaggi, trovandosi totalmente in loro balia. Ma quel “lavoro” interiore ha accresciuto ancora di più il suo disorientamento. […] Ora la donna adulta non deve perpetuare lo sforzo disperato della bambina, non deve sforzarsi di giudicare oggettivamente, di contrapporre il buono al cattivo, bensì deve agire ascoltando i propri sentimenti. […] Non si tratta di giudicare sommariamente i genitori, bensì di riscoprire la posizione della bambina muta e sofferente e di rinunciare a un legame che definisco distruttivo. In tal modo creiamo al nostro interno la persona capace di appagare i nostri bisogni, quelli stessi che chiedono di essere soddisfatti da quando siamo nati, se non addirittura da prima. Solo così saremo finalmente in grado di offrire a noi stessi la considerazione, il rispetto, la comprensione delle nostre emozioni, l’indispensabile protezione e l’amore incondizionato che per varie ragioni ci erano stati negati»13.
Aggiungo una riflessione personale riguardante la tecnica e la pratica terapeutica: spesso in presenza di patologie borderline, la terapia deve funzionare al contrario della psicogenesi, sapendo arginare anche con molta fermezza in principio la «parte persecutrice» che si è ormai consolidata come difesa attiva dalle crudeltà subite, in modo da arrivare gradualmente a scoprire nel corso della terapia la «parte vittima» e le emozioni conseguenti. Si tratta di un’operazione che può superficialmente apparire dura e poco empatica, ma che si basa al contrario su una sensibilità e una comprensione opposte alla «pedagogia nera».
10. A. Miller A., Riprendersi la vita, cit., p.57
11. «Una persona che sta accanto (sia pure episodicamente) a un bambino maltrattato e gli offre un appoggio, un contrappeso alla crudeltà che caratterizza la sua vita quotidiana. Questo ruolo può essere svolto da qualunque persona del suo ambiente: un insegnante, una vicina, un collaboratore domestico o anche la nonna. Molto spesso si tratta di un fratello o di una sorella. Questo testimone è una persona che offre un po’ di simpatia o d’amore al bambino picchiato o abbandonato. Non cerca di manipolarlo a scopi pedagogici, ha fiducia in lui e gli trasmette il sentimento di non essere “cattivo” e di meritare affetto e gentilezza. Grazie a questo testimone, che non necessariamente dev’essere consapevole del suo ruolo decisivo e salvifico, il bambino apprende che al mondo esiste qualcosa come l’amore. In circostanze favorevoli, il bambino svilupperà fiducia nel suo prossimo e potrà custodire in sé amore, bontà e altri valori della vita. (È significativo che nell’infanzia di autori di stermini di massa come Hitler, Stalin o Mao non si trovi traccia di testimoni soccorrevoli)»: A. Miller, Riprendersi la vita. cit., p.43.
12. Già nel 1932 così scriveva Ferenczi: «Pare che i pazienti non possano credere, o almeno non completamente, alla realtà di un avvenimento se l’analista, unico testimone del fatto, mantiene un atteggiamento freddo, anaffettivo e, come i pazienti lo definiscono, puramente intellettuale”: S. Ferenczi, Diario clinico, Raffaello Cortina, Milano1988, p.75.
13. A. Miller, La rivolta del corpo. Come superare i danni di un’educazione violenta, Raffaello Cortina, Milano 2005, pp. 103-104.
Evitare la ricerca del colpevole
Non si può confondere la realtà dell’abuso con la colpa dei genitori. Al centro del recupero c’è la verità di se stessi e non la colpevolizzazione dei genitori.
Il fatto che i traumi subiti siano stati reali, che le paure e le angosce siano state così vere da dover subire un processo di rimozione prima di essere esperite, significa affermare in primo luogo la verità di se stessi, non colpevolizzare i genitori. Certamente il bambino è innocente. È invece la ricerca del colpevole ad essere sbagliata. È questa ricerca fuorviante e menzognera del colpevole che porta a negare la verità dell’innocenza del bambino e la realtà dei traumi subiti. Non si può confondere la realtà dell’abuso con la colpa dei genitori.
Nella stragrande maggioranza dei casi di abuso i genitori si sono comportati come degli automi, guidati dalla loro stessa infanzia, senza poter fare altrimenti; grazie ai figli hanno cercato senza saperlo di soddisfare quei bisogni che avevano dovuto reprimere da piccoli: i bisogni di attenzione, rispetto, tolleranza, amore, protezione, cura. «Ma dato che un bambino non è in grado di capirlo, e dato che esso si ammala se cerca di farlo, vorrei aiutarlo a non dover capire niente di più di quanto gli sia possibile»14. Altrimenti lo si rinnegherebbe due volte: da piccolo per la salvifica, necessaria rimozione dell’ira e del dolore; da grande per lo sforzo di comprendere a tutti i costi il motivo del comportamento dei genitori, rischiando di chiudere definitivamente le porte di accesso a se stesso. «Da bambini abbiamo tutti cercato di capire i nostri genitori, e poi continuiamo a farlo per tutta la vita. Purtroppo è proprio questa compassione nei confronti dei genitori a impedirci molte volte di prendere coscienza della nostra sofferenza»15.
Effetti benefici della rabbia e del dolore
Acquisire la libertà di ammettere e di vivere i risentimenti che erano diretti verso i genitori, risalenti alla prima infanzia, non significa affatto che da quel momento in poi si diventi persone piene di rancore, ma anzi proprio il contrario, perché «non si è poi più costretti a riversarli su persone sostitutive. Soltanto l’odio che si prova per persone sostitutive è inesauribile e inestinguibile, come ci insegna l’esempio di Adolf Hitler in quanto, sul piano cosciente, il sentimento venne separato dalla persona verso cui in origine era rivolto»16.
Non solo: l’ira è l’unica vera via per l’eventuale perdono, anche se occorre vigilare perché la fase dell’ira non si concluda prematuramente in modo forzato. Ad esempio, molte vittime dei pedofili hanno «perdonato» troppo precocemente i loro carnefici, hanno minimizzato il loro stato di vittime rimuovendo l’atrocità degli abusi subiti e le terribili emozioni connesse, senza riuscire così ad evitare di diventare a loro volta carnefici.
“Il vero perdono non passa sopra all’ira ma passa attraverso di essa. Solo quando sono in grado di indignarmi per un’ingiustizia che mi è stata fatta, quando riconosco la persecuzione in quanto tale e riesco a riconoscere e a odiare il mio persecutore, solo allora mi si apre la via al perdono. L’ira, la rabbia e l’odio repressi cessano di venire perpetuati solamente se si è in grado di scoprire la storia delle persecuzioni nei primissimi anni di vita. Tali sentimenti si tramuteranno nel lutto e nel dolore per il fatto che le cose siano dovute andare proprio a qual modo, per la solitudine patita, e pur in tale rincrescimento lasceranno posto a una comprensione autentica: la comprensione di chi è ormai adulto e riesce ad avere una conoscenza profonda dell’infanzia dei suoi genitori e, finalmente libero dal suo odio, è in grado di nutrire un vero e maturo sentimento di empatia. Non è possibile costringere a donare tale perdono mediante prescrizioni e divieti; esso è sentito come una grazia e appare spontaneamente quando non ci sia più l’odio represso, perché proibito, ad avvelenare l’animo. Il sole non deve essere costretto a risplendere, quando le nubi si fanno da parte, esso risplenderà naturalmente. Ma sarebbe un errore voler ignorare le nubi, dal momento che ci sono.17?
La Miller offre molti spunti di riflessione sia per i formatori che per gli psicologi. Il formatore ha l’enorme occasione e responsabilità di essere spesso l’unico testimone soccorrevole a disposizione di una persona che non sa di essere stato leso nella propria identità: occorre chiedersi sempre se una persona che incontra o che gli è affidata potrebbe nonostante l’apparente buon adattamento essere sofferente, poco spontanea e vitale, mostrarsi troppo remissiva, per non rischiare al contrario di colludere con il suo falso sé ritenendola virtuosa perché “umile”, ubbidiente, docile (magari pastoralmente efficiente o studente modello nel sostenere con profitto gli esami in seminario).
Anche lo psicologo come visto potrebbe minimizzare le ferite dell’infanzia, temere le rabbie represse, o cercare di voler “integrare il buono col cattivo” prematuramente: ma la psicoterapia per la Miller implica necessariamente un processo di identificazione in cui esistono solo due alternative opposte: il terapeuta può identificarsi con il bambino che è nel paziente oppure con i suoi genitori. Potrà solo identificarsi ora con l’uno ora con gli altri, in momenti diversi della terapia. Ma in questo secondo caso, l’analista non avrà accesso alla realtà infantile del paziente, così come non l’ha il paziente stesso. “Il paziente, che da bambino è stato traumatizzato dai genitori, si trova ora di fronte un nuovo genitore, l’analista stesso, che pur di coprire le responsabilità dei suoi genitori ricorrerà al complesso edipico, finendo per colpevolizzare lui stesso il paziente e per negare la realtà effettiva dei vissuti traumatici emersi durante l’analisi”18. Si tratterebbe per la Miller di un vero e proprio abuso terapeutico derivante dalle molteplici varianti – a lei fin troppo note – della paura che i terapeuti hanno di ferire i propri genitori. Oppure viceversa sarà senz’indugio un vero testimone consapevole, totalmente dalla parte del bambino.
14. Id., La persecuzione del bambino, cit., pp. 225-226.
15. Id., Riprendersi la vita, cit., p.89.
16. Ibid., p.220.
17. Ibid, p, 221.
18. A. Vigilante, Educazione e violenza in Alice Miller, http://educazionedemocratica.org file pdf p. 276.